Era tutto scritto da sempre, era segnato nel mazzo di carte. Non è l’attacco per far pensare male, ma semplicemente l’inizio di una vecchia canzone che parla di viaggi e di destini, di strade che si separano e appuntamenti ai quali, invece, si arriva lo stesso. Ecco, in un giorno d’ottobre a Jerez De La Frontera s’è presentato puntuale (o forse un po’ in ritardo, ma non certo per cola sua) all’appuntamento con la storia un ragazzo dal nome impronunciabile e dal talento, che, invece, ti fa venire fuori ogni tipo di parola: Toprak Razgatlioglu. E’ lui, il ragazzo turco con la faccia pulita e le manovre da stuntman, il nuovo campione del mondo della Superbike. Il primo della storia di BMW (c’era andato vicinissimo Marco Melandri più di dieci anni fa). Uno a cui vincere viene così facile da non rendersi forse abbastanza conto dell’impresa che ha fatto.
Campione del mondo lo era stato già, con Yamaha, nel 2021. Partendo dalla Turchia, che non è certo terra di motorsport, e mettendosi sulle orme di quel Kenan Sofuoglu che gli ha fatto da idolo prima – mentre era impegnato a vincere cinque titoli mondiali in Supersport - e da allenatore e manager poi. E pensare che avrebbe dovuto fare lo stuntman. Sì, perché suo babbo, noto come Arif L’Impennatore, era uno stuntman professionista capace di manovre al limite dell’umano sopra le motociclette, ma che sopra una motocicletta, in un normalissimo e pure banale (nella dinamica) incidente stradale c’aveva perso l’unico bene prezioso davvero: la vita. Toprak aveva 21 anni appena, aveva cominciato a vincere a cinque anni nel motocross e lo aveva fatto ancora, da più grande, nella velocità, ma pure nel campionato turco di Supermoto. Però a 21 anni era ancora solo una promessa, uno tutto manico che sbagliava tanto nonostante corresse già nel mondiale, in Supersport, e con lo stesso numero di quel Sofouglu che lo aveva preso sotto la sua ala. Arrivato, ma inespresso. Forte, ma sempre acerbo. Fino al dolore assurdo di sapere che quel padre con cui era iniziato tutto e che sembrava invincibile aveva dovuto andarsene senza neanche salutare. In un incidente normale. Come quelli che sono normali e vincibili.
Roba che basterebbe a chiunque per scendere dalle moto e cominciare a odiarle per sempre. Ma un campione non è mai “chiunque” e il giovane Toprak ha fatto proprio di quel dolore la radice dello scatto che mancava. Il mondiale Superbike è arrivato, per lui, nel 2018, quando quel babbo che aveva vissuto su una ruota sola non poteva più stare a bordo pista, con Toprak che, evidentemente, ha sentito di averlo vicino da qualche parte. Magari direttamente dentro. Due podi al primo anno e nono posto in classifica generale, mentre il paddock della Superbike cominciava a innamorarsi del figlio di Arif L’Impennatore, preparandosi a vederlo l’anno successivo, ancora con Kawasaki e Puccetti, pure sul gradino più alto, in Francia, a Magny Cours, con una doppietta che ha segnato l’inizio della gloria vera. Vinse, quell’anno, il titolo di miglior pilota indipendente e pure l’interesse di Yamaha, che l’ha voluto come pilota ufficiale per il 2020. Quarto posto finale in classifica generale e consapevolezza, per lui e per tutti, che i tempi erano finalmente maturi. Tanto che nel 2021 è arrivato il titolo mondiale, che ha segnato anche la fine dell’era di un certo Jonathan Rea.
Non aveva la moto migliore, non aveva l’esperienza di Rea, ma solo un modo di guidare che suonava come poesia dentro un mondiale di derivate di serie fatte esprimere sempre e solo in prosa. Solo che il talento assurdo del figlio di Arif L’Impennatore è finito schiacciato dalla mentalità di una Yamaha che, come nel frattempo accadeva anche in MotoGP, sembrava bearsi di una superiorità tecnica che invece non c’era. Supponenza pagata a prezzo carissimo. Con Toprak che s’è ritrovato a armi spuntate a combattere contro una Ducati e un Alvaro Bautista nel frattempo diventati imprendibili, come unico avversario di una accoppiata che altrimenti di avversari non ne avrebbe avuti affatto. Ma a Yamaha non è bastato. Come se dal figlio di Arif L’Impennatore ci si aspettasse sempre e solo di saper andare oltre. Una capacità di fare di più. Come una pretesa. Sarebbe potuto andare ovunque, ma è rimasto lì. E ci sarebbe rimasto ancora se non gli avessero negato, oltre all’opportunità di competere veramente, anche quella di togliersi uno sfizio che aveva comunque i contorni del sogno: provarci con la MotoGP. Non in gara, ma in un semplice test, purchè fatto con il sacro crisma delle cose serie. Il test glielo hanno fatto fare, ma, come ha poi raccontato il suo manager, senza nemmeno consentirgli di chiedere che gli adattassero la sella. E’ stato troppo. E è stato lo smacco che è valso un addio. E pure l’emulazione di una storia già vista, ma in MotoGP e con protagonista un certo Valentino Rossi.
Sì, perché Toprak Razgatlioglu ha scelto BMW per rimettersi in gioco: la moto che per definizione rappresentava l’incapacità di vincere. S’è messo lì (ok con uno stipendio da favola e pure con superconcessioni che sicuramente hanno aiutato gli ingegneri tedeschi a trasformare la BMW in un missile terra terra) e ha lavorato come lavora un matto vero. Come lavora, appunto, il figlio di Arif L’Impennatore, con la dedizione del migliore degli impiegati, ma pure con la fantasia del più eclettico dei creativi. Non ci credeva nessuno. O comunque ci credevano in pochi davvero. Fino a quando il mondiale non è iniziato e la musica non è tornata a essere quella del 2021. Si dice, però, che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e a Magny Cours, quando ormai c’era solo da andare a prendersi un titolo, Toprak Razgatlioglu s’è ritrovato con un polmone mezzo collassato in seguito a un incidente assurdo e dalla dinamica agghiacciante. Ha rischiato grosso. E’ finito in ospedale. S’è sentito dire che forse il mondiale per lui sarebbe finito lì. Intanto Nicolò Bulega, l’unico che gli ha tenuto un po’ testa in questa stagione, guadagnava punti, rendendo ancora più tremendo il forzato stop. Poi la bella notizia, il ritorno in pista prima e sul podio poi, ma con un vantaggio da ricostruire di nuovo e un dominio da ricalcare e riproporre. Più lentamente, con più paura, con una maturità differente e un corpo comunque ancora ferito e provato. Fino all’ultimo round a Jerez e a una nuova bandiera a scacchi che vale l’ingresso nella leggenda, ma sempre nel rispetto di una tradizione che vale una promessa fatta al cielo e il grazie urlato sotto forma di ennesima acrobazia a un padre che forse non può ascoltare più ma non ha mai smesso di esserci. Senza lacrime: solo a gas aperto, di traverso o magari anche sottosopra e con qualunque cosa avesse due ruote. Lasciando lì, prepotentemente indietro, chi ha scelto di buttare via e negare un'occasione.