Ha vinto in MotoGP, ha vinto in una tappa della Dakar e, adesso, ha vinto anche nel mondiale Superbike. Dopo aver mangiato fango come fanno quelli che vengono da per terra e piano piano salgono sempre un pezzo più su, scrivendo e contestualmente lasciandosi alle spalle una storia pazzesca e pure un paio di incontri ravvicinatissimi con la morte. Le motociclette le ha incontrate da bambino, quando non voleva sporcarsi le scarpe sugli uliveti del nonno e gli regalarono una minimoto per superare il problema. Ecco, superare il problema è il mantra di uno che per arrivare ha fatto più fatica degli altri, più strada degli altri e pure con un corpo che non è leggero come quello di un pilota. E che adesso è anche segnato, persino sul viso, dalle botte rimediate inseguendo il futuro.
L’hanno chiamato il “pilota operaio”, perché tanti anni fa rinunciò allo stipendio della squadra sportiva della Polizia di Stato spiegando che ora che lui ne aveva uno da pilota vero, quei soldi avrebbero fatto comodo a qualcun altro. Poi l’hanno chiamato “l’Ulisse delle corse”, perché ha cominciato con il trial, s’è innamorato del cross e ha sfondato nella velocità, mettendo sempre l’anima davanti. Tra i cordoli del motomondiale, sulla sabbia del deserto, poi negli USA e di nuovo in un mondiale, ma questa volta tra le derivate di serie. Vincendo sempre. Prima nel cuore della gente (è probabilmente l’unico pilota a cui vogliono bene tutti davvero) e poi pure in sella. “Io un po’ me lo sentivo – ha raccontato oggi, subito dopo una bandiera a scacchi sventolata con cinque giri di anticipo – La pista era perfetta, la moto andava bene e ho pensato che avrei potuto vincere proprio come in MotoGP in una gara in Italia: lì eravamo al Mugello, qui siamo a Cremona”.
La voce che un po’ si spezza, poi le parole che escono dall’istituzionale e diventano personalizzate. Alla Petrucci maniera e con quella cadenza ternana lì: “Stavo davanti. Poi ho visto la bandiera rossa e ho cominciato a fare i conti nella testa anche se non sono tanto bravo. Mancavano cinque giri e più o meno ho capito che i due terzi della gara erano fatti e ho capito di aver vinto”. L’ha realizzato, ma probabilmente non l’ha capito ancora.
Perché a caldo così è quasi impossibile capire la portata non di una vittoria, ma di una vittoria così in relazione a una storia che è unica. E probabilmente sarà pure irripetibile. Danilo Petrucci da Terni, il pilota operaio o l’Ulisse delle motociclette, ha messo un altro tassello. E, conoscendolo, probabilmente pensa già al prossimo. Mentre il suo nome finisce definitivamente nella leggenda come il nome dell’unico pilota nella storia capace di vincere in MotoGP, in una tappa della Dakar e in una gara della Superbike. E la cronaca di oggi passa inevitabilmente in secondo piano, nonostante l’impresa sportiva, perché la sostanza diventa il racconto di qualcosa di molto più grande. La storia di un uomo che pochissimi mesi fa ha alzato il dito medio in faccia alla morte e poi ha celebrato la vita forzando per tornare in sella: col viso segnato, con le ossa rotte, col dolore che lo ha spezzato nelle prime gare subito dopo il ritorno in pista. Competere, meritare, trasformare: Danilo Petrucci, da oggi, è pure un po’ più maestro di vita. Signori: la storia pazzesca del ragazzino di Terni che non voleva sporcarsi le scarpe s’è solo arricchita di un capitolo oggi a Cremona. Ma è, appunto, solo un altro meraviglioso pezzo.