L’appuntamento è per venerdì pomeriggio, dopo la prima giornata di libere a Sepang. Ai Ogura è campione del mondo da meno di una settimana e, di fatto, sembra che stia vivendo questo traguardo come un uomo che ha appena finito di pagare un mutuo trentennale, dice di non aver mai voluto nient’altro, solo “un fottuto titolo mondiale”. È il primo giapponese a riuscirci dopo Hiroshi Aoyama, che il suo nome l’aveva scritto nell’ultima stagione della classe 250, corsa nel 2009. Ai Ogura siede al tavolo di Severino, che sfama buona parte delle squadre che non possono permettersi una cucina.
C’è qualcosa nei piloti giapponesi a renderli diversi, a volte fenomenali e quasi sempre facilmente riconoscibili. È la cultura delle corse che si mescola a quella di un popolo antico e rigoroso ma anche ironico e leggero, un approccio alle che a nostro modo abbiamo anche in Italia. È la storia dei caschi con gli occhi dipinti sopra quella del Giappone da corsa, storia dai colori anni Ottanta e dai piloti venuti da lontano con i capelli lunghi e un nome che suona rock n’ roll, tipo Norifumi Abe. E poi Daijiro Kato, pilota di Fausto Gresini, così amato in Romagna che la strada che porta al Circuito di Misano porta il suo nome, o il grande Noriyuki Haga di cui chiunque ricorda le pirotecniche risposte.
Ai Ogura è tutta quella roba lì, forse di più. Anche se non ha non gli importa nulla di farcelo sapere.
Hai corso l’Asia Talent Cup, la Red Bull Rookies Cup, la Moto3, la Moto2. Però è partito tutto da tua sorella Karen che con le minimoto andava forte e da tuo padre Masaharu, che da giovane faceva il pilota. Vieni da una famiglia che vive solo di corse?
“Sì, mio padre faceva il pilota ma non era esattamente un professionista, anche se spendeva tutti i suoi soldi per correre. Penso che il suo sogno fosse quello di diventare un pilota dell’All Japan Superbike, se non addirittura del mondiale, non lo so. Non ce l’ha fatta, ma credo che abbia trasmesso questo suo sogno ai suoi figli, me e mia sorella. Lei andava forte, anche se ora non usa più la moto. Io ora c’è l’ho fatta e non so ancora spiegarmelo, vedere le facce della mia famiglia è stato veramente eccezionale”.
Quando è stato il momento, in questa tua carriera, in cui hai capito che, al contrario di tuo padre, saresti riuscito a diventare un pilota professionista?
“Quando ho inviato la mia candidatura per iscrivermi alle selezioni dell’Asia Talent Cup. In quel momento ho capito che sarebbe stato qualcosa di serio e la mia famiglia ha dato tutto per offrirmi quella possibilità, sapevo che avrei dovuto farcela per forza”.
Sì o sì, come dicono gli spagnoli. Sei passato attraverso molti momenti difficili, uno per esempio nel 2022 quando qui in Malesia avevi la possibilità ddi vincere il tuo primo titolo mondiale, quello che hai vinto la settimana scorsa. Pensi che questi anni non sempre facili ti aiuteranno a gestire l'approccio alla MotoGP?
“Un errore è un errore, ma sembrerà strano eppure dopo questo titolo sento che tutti gli errori che ho fatto e tutta la sofferenza con cui ho dovuto confrontarmi ora hanno un significato. Posso prendere queste cose positivamente adesso, anche quelle cattive. Probabilmente posso dirlo perché ho vinto il titolo, ma sai… forse questa roba mi ha fatto crescere, rendendomi un pilota migliore. Tutto, anche gli errori e gli sforzi hanno un significato”.
Qual è stato il momento più duro?
“Prima di arrivare alla GP. Al primo anno dell’Asia Talent Cup ero super lento, al primo anno della Red Bull Rookies Cup anche… ero al limite, avrebbero potuto sbattermi fuori. Lì è stata durissima, invece quando arrivi al motomondiale sei abbastanza grande da capire le situazioni, le cose. Se sei lento capisci perché mentre a quattordici o quindici anni sei lento e basta, non vai a cercare un motivo perché. È stata durissima, continuavo ad andare giù, poi in qualche modo ce l’ho fatta. credo che quello sia stato il momento più importante della mia carriera”.
Alessio Piana, un collega italiano appassionatissimo di motociclismo giapponese, ha scritto che corri con il 79 perché il 7 era il numero con cui correvi da piccolo e il 9 quello che ti diedero all’Asia Talent Cup. Mi racconti questa storia?
“Come ti dicevo, mio padre faceva il pilota e correva in un campionato locale con questo team che oggi in Giappone è abbastanza famoso, il KTR. È da lì che sono arrivati i fratelli Aoyama, Yuki Takahashi e molti altri piloti giapponesi. Così mio padre si trovò come compagno di squadra Hiroshi Aoyama, che al tempo era un ragazzino alto così (mima l’altezza di un tavolino, ndr.) mentre mio padre aveva già vent’anni. Per questo mio padre gli si affezionò e seguì da vicino tutta la carriera di Hiroshi, fino al titolo in 250 nel 2009. Aoyama correva con il 7, così mio padre lo diede anche a me e io ci corsi per tutta la mia infanzia. Poi sì, nella Asia Talent Cup mi diedero il 9 e nel mondiale li misi assieme”.
Hai un legame profondo anche con Daijiro Kato.
“Era… nessuno in Giappone è come lui. Lui è su di un altro livello. Anche Harada ha vinto un titolo e ci sono tanti campioni come Sakata, Haruchika Aoki… Daijiro ha vinto solo un titolo nella 250, ma è come un Dio. A proposito di numeri lui correva con il 74, che poi secondo me è il motivo per cui molti piloti giapponesi usano il 7”.
Come ti senti a essere nello stessa cerchia di questi ragazzi, ad aver vinto un titolo nella classe di mezzo come Hiroshi Aoyama e Daijiro Kato?
“Beh, magari sulla carta sono sullo stesso livello, io però non mi sento così. Da bambino sono cresciuto guardando loro in TV, non posso sentirmi come uno di loro anche se sono veramente felice di aver vinto un titolo nella stessa categoria di gente come Aoyama, Harada e Daijiro”.
Per anni hai chiesto Norman Rank come capotecnico: tutti parlano del suo stile, del fatto che è un ex pilota. Era l’uomo giusto per vincere un mondiale? Che relazione avete?
“In qualche modo ci vogliamo bene. Sono stato onesto con lui dal primo giorno e lui è stato molto duro, ma comunque contento di avermi con lui. Ecco perché ho scelto sempre lui, anche se qualcuno dice non lo apprezza o dice che non è uno corretto. Anche quando ho cambiato team, lui mi ha detto che con me avrebbe fatto il passaggio. Dopo 8 anni e un titolo non è più il mio capotecnico, è qualcos’altro”.
Hai un role model nelle corse?
“Da piccolo non guardavo molto le gare in televisione, pensavo al mio weekend perché i miei genitori mi portavano sempre in piccoli circuiti e io guardavo solo al mio piccolo mondo. So che tanti hanno idoli come Valentino, Lorenzo, Stoner… A me piace vedere le gare e apprezzo moltissimo questi piloti, però… forse dirò Daijiro, forse sì. Daijiro Kato”.
Fuori dalle corse invece, c'è qualche personaggio che ti è d'esempio? Che ne so, un cantante. O un economista.
“Mah, non so. Se però mi chiedessi che canzone ascoltarei prima di morire, una volta soltanto, ti direi Redemption Song, di Bob Marley”.
Hai voluto fortemente l’Aprilia per il 2025, specialmente considerando che hai passato buona parte della tua carriera in Honda e loro (nel team di Lucio Cecchinello) ti hanno cercato a lungo. Volevi un progetto vincente?
“Da pilota scegli il massimo che puoi avere. È sempre così. È quello che ho fatto e in quel momento, quando ho deciso di passare in MotoGP, eravamo durante la pausa estiva e Aprilia era molto più competitiva di Honda, così ho scelto quel team, senza tanti discorsi”.
Oltre a questo è sembrato che, al contrario di molti tuoi colleghi, non ti importasse un granché di passare alla MotoGP. Perché?
“A me non è mai importato davvero di arrivare in MotoGP, volevo solo vincere un fottuto titolo. Per questo sono rimasto così attaccato alla Moto2, alla fine è stata la scelta corretta e adesso questo titolo l’ho vinto”.
La tua carriera è sempre stata questo, un tributo alla consistenza: il primo anno è difficile? Non importa. La Moto2 è difficile? Pazienza, continuiamo. Cosa ti aspetti dal 2025?
“Non mi aspetto niente, so che sarà dura”.
Ci consigli un buon manga che dovremmo leggere in Europa?
“Quindi uno non troppo famoso… Non sono troppo sicuro che questo manga esista in altre lingue, forse c’è solo in Giappone: si chiama Capeta, racconta di corse su quattro ruote. È vero racing, veramente dentro alle cose. Non so come quest’uomo (Masahito Soda, ndr) abbia scritto questa storia, perché devi essere parte di questo mondo per scrivere così. Per conoscere così bene tutte le dinamiche del motorsport: i momenti duri, le sfide… in un modo o nell’altro l’autore sa davvero cosa si prova a fare le corse. Così per me questo manga è stato come una guida, ho imparato moltissimo leggendolo”.
Come ti piace spendere i tuoi soldi? Alcuni piloti comprano scarpe, altri orologi, macchine… qualcuno non compra nulla perché non guadagna abbastanza. Tu?
“Non lo so, forse qualche canna da pesca! Non sono un grande appassionato di supercar o vestiti costosi, magari da pilota della MotoGP dovrò vestirmi in un certo modo, magari proverò anche, però io sono uno abbastanza normale, uno della strada. Non spendo chissà quanti soldi, magari un giorno potrò comprarmi una bella moto da allenamento o un appartamento in cui stare, questo sì. Ma niente come una supercar o brillanti, non mi interessa proprio”.
Hai mai paura di correre?
“Beh, posso dirti che rispetto agli altri piloti ho molta più paura”.
Come lo sai, ci parli?
“Sì. E loro dicono ‘a me non importa, sono forte’, ma io non sono così. Faccio sempre un passo indietro per cercare di capire cosa sta succedendo, perché sono spaventato da quello che può accadere. Ti faccio un esempio: quando sono passato dalla Moto3 alla Moto2 avevo veramente paura a guidare questa moto, era velocissima per me. Tanti altri piloti invece no, si godono la velocità e basta. Io non mi godo mai la velocità. Mi godo la moto quando riesco a controllarla, ma la velocità pura non mi è mai piaciuta. L’idea di andare a 350 Km/h su di una MotoGP mi terrorizza già. Mi preoccupo più di altri, mi spavento di più”.
Sei sicuro che gli altri non fingano tutta questa sicurezza?
“Non mi importa, il punto è che io non posso mentire a me stesso e pensare di viverla come gli altri. Sono orgoglioso di essere così, di essere me stesso, mi accetto per quello che sono”.
Credi in Dio?
Ai Ogura ci pensa, guarda in alto, si prende un momento più lungo del solito.
“No. Quello che fai è quello che fai. Tutte le stronzate che combini devi accettarle, tutto quello che fai di buono devi accettarlo. È tutto nelle tue mani, per tutto il tempo. Magari a volte, in momenti di estrema tensione, sei così (a mani giunte, guardando verso l’alto, ndr). Ma alla fine dovresti cercare di essere te stesso, è da te che dipende”.
Immagino che vincere un titolo mondiale sia un’emozione enorme, inspiegabile. Lo vivi e basta, o almeno i piloti dicono così. Se potessi scegliere una persona, una soltanto, a cui far provare le stesse sensazioni, la stessa intensità che hai provato tu, chi sarebbe?
“La mia famiglia l’ha sentito più di me, quindi… non lo so. Di sicuro sarebbe qualcuno della mia famiglia”.
Chi?
“Forse mio nonno. Lui adesso è in un letto d’ospedale (Ai si commuove, prende un respiro e poi riparte, ndr). Mio nonno guarda sempre le mie corse, lo fa da quando correvo con le minimoto e parla con i suoi amici, che sono vecchissimi, mandando sempre questi video e questi messaggi in cui dice loro che quello lì è suo nipote. Sì, forse sceglierei lui”.