Uno dei suoi autori preferiti, John Fante, dice che per «scrivere bisogna amare e per amare bisogna capire». Maurizio Sarri ama il suo mestiere: «l’unico» disse «che avrei fatto gratis», ma pare non avere più voglia di capirlo. Dopo aver visto sventolare dai suoi un manifesto di impotenza per un’ora e mezza sul prato di San Siro si è preso qualche altro minuto, in sala stampa, per dire quattro cose non nuovissime. Si gioca troppo spesso («Questo calcio non mi piace perché a settembre, ottobre e novembre tanti giocatori vanno via con la nazionale e poi in 20 giorni devono giocare 7 partite: non è vero calcio, ma solo un circo per fare soldi», la dichiarazione in copia carbone è del 2016), il calendario è folle, del mercato della Lazio gli hanno fatto sentire soltanto l’odore e la squadra vale il giusto: cioè poco, cioè meno delle altre. Un anno dopo, quindi, siamo alle solite. Sarri è scontento, la “banda” istituzionale che tutto controlla pensa solo a guadagnare, sfruttare, calpestare il buon senso, gli acquisti che aveva più o meno subliminalmente suggerito a Lotito per fare il salto di qualità sono rimasti lettera morta e non potendo fare come Massimino e acquistare l’amalgama è bene riporre i sogni tra irrealtà e utopia. Dodici mesi fa Sarri diceva le stesse cose, ma giocando di sottrazione: «Se andiamo in Champions è un miracolo», decidendo di sacrificare l’Europa per il campionato e inventando soluzioni per ovviare alla lunga assenza del suo unico attaccante centrale era riuscito a stupire issando la Lazio al secondo posto. Bel gioco, entusiasmo, stadio pieno e una battaglia interna con Igli Tare che, vinta, sembrava avergli consegnato le chiavi della Lazio nel largo ruolo di tecnico, manager e futura leggenda. Sarri in Vespa che fuma e irride Mourinho. Sarri taumaturgo. Sarri filosofo. Sarri che fa il mercato anche se lui ha sempre negato di volerlo fare: «Resto un uomo di campo, non potrei permettermi di sprecare energie per fare altro. Il mercato mi annoia, non mi piace e non mi interessa». C’era comunque chi evocava Maestrelli, chi faceva parallelismi con il 1974, chi sognava davvero che la rivoluzione avrebbe portato il figlio di due operai fino (e oltre) le porte del palazzo. Sembra stia andando diversamente.
La squadra che allena ha conquistato sette punti in sette partite. Chi guida ne ha fatti undici in più. Il rapporto con il suo presidente è ai minimi termini. C’è mestizia, fatica, l’aria greve di quando non ci intende più, ma si è capito molto bene come andrà a finire. Sarri è un meraviglioso pezzo unico. Un prisma di contraddizioni. Vive per la partita- la preparazione alla gara era anche il tema della sua tesi a Coverciano- e del resto gli importa poco. Ha qualcosa di Zeman, ma anche di Mazzone. Non è misantropo, ma non lo troverete mai a fare festa. Parla poco, ma quando accade è quasi sempre un casino. Disse che se non avesse voluto sentirsi sotto esame avrebbe lavorato alle poste. E nonostante la solidarietà di Gianni Mura:- «È il segnale che le battute si possono fare solo su un campo, ma fuori si rischia»- si incazzò Poste Italiane. Diede del finocchio a Roberto Mancini durante una partita di Coppa Italia e poi gli chiese scusa. «Avrei potuto dirgli anche “sei un democristiano”» spiegò. E si incazzarono gli eredi della Democrazia Cristiana. Il padre Amerigo che con le parole si faceva valere (a Figline Valdarno era soprannominato il “parapei”, il chiacchierone) lo voleva ciclista e lui, fin da bambino- raccontò l’ex presidente del Csm David Ermini, suo compagno di banco di elementari- disegnava calcio e formazioni durante le ore scolastiche. Il calcio ha fatto giri immensi e poi è tornato anche se Sarri, dopo tanto gregariato, al traguardo della Serie A è arrivato solo dieci anni fa. Lavorava in banca, si licenziò. Dopo la gavetta nelle serie inferiori ha vinto dove non lo volevano e dove non si sono mai sforzati di abbracciarlo e ha sfiorato la beatificazione nel luogo in cui invece lo avevano capito, amato e venerato. Anni dopo, non senza tormenti e qualche rappresentazione tra il sacro e il profano nei panni di Giuda sulle bancarelle di San Gregorio Armeno, Napoli giura di averlo dimenticato. Più probabilmente finge. Chissà se Sarri se ne frega. AI tempi della Juve glielo domandarono: «Mi fischieranno? Sarà un atto d’amore». Acqua passata. Ieri come oggi Sarri sta benissimo da solo. Se non sta più bene in un posto, lo fa capire. A Roma hanno esattamente questa impressione. E sono dispiaciuti. Il terzo anno avrebbe dovuto essere quello della consacrazione e sta prendendo le sembianze di un calvario. Sarri è un uomo libero. Ha un contratto, ma se per forma in passato si è piegato ad annodarsi la cravatta, non significa abbia un cappio al collo. E agli uomini, a certi uomini, preferisce i cani. Ne adottò uno sull’uscio di Castel Volturno. Ciro. Un cane senza collare, proprio come lui. A questa conclamata diversità da film western in cui il nostro si soffia il naso a mani nude e cavalca contro un nemico immaginario, una diversità profondamente laziale, da ieri anzi dall’altro ieri, anzi dal 1900, i tifosi avevano finito per credere. Perché si finisce per credere a chi pensiamo possa somigliarci. Con fideismo assoluto, la Lazio ha pensato di aver trovato IL comandante. L’allenatore giusto al posto giusto per rivivere un’epopea. Lui e le sue “canaglie”, contro tutti e tutto fuori tempo massimo, come in quel bel libro di Angelo Carotenuto su Giorgione, CeccoNetzer e Felice il portiere gentiluomo. Sarebbe stato bello immaginarlo, Sarri, in un giorno di pioggia estiva stendere il calendario al centro dello spogliatoio e dire ai suoi: «Abbiamo un inizio di campionato terribile, ma qui proviamo a fare la storia e magari non ci prendono più». Sarebbe stato da laziali. Lo avrebbero riconosciuto come fratello tutti, molto al di là dei risultati, perché spirito e intenzione per chi si è salvato partendo da meno nove con Fabio Poli, Giuliano Fiorini e un portiere in mutande bianche che scriveva poesie, contano più di tutto il resto. Avremmo voluto vederlo empio: «Ho sempre detto che lo scudetto è una bestemmia, ma io sono toscano e in Toscana si bestemmia abbastanza», eccessivo, visionario, anche. Sarri ha scelto un’altra strada.
Ha abbracciato il lamento accostandosi a predecessori che non valgono una sua unghia. Forse, si augurano i più ottimisti, per stimolare l’orgoglio. Per suscitare una reazione. Per trasformare una pagina scura in resurrezione. Si vedrà in Scozia, ma il clima si è guastato. Troppe recriminazioni e poco eroismo. Troppe scuse e poco coraggio. Troppi triangoli della tristezza e nessun sorriso. Guendozi non è Zielinski e Castellanos non è Berardi, d’accordo. E Lotito è Lotito. Ma non può essere sempre colpa di Lotito. È troppo facile e non è neanche giusto perché se su qualcuno Lotito ha scommesso ogni cosa, derogando a ogni principio non solo economico, questo qualcuno si chiama Sarri. Prendere e restituire, questo è l’equilibrio. Lucida follia e rischio, questo si vuole. Rabbia e voglia di far saltare i funerali, questo ci si aspetta da MS. Valore e non zavorra. Ingegneria finissima e non luddismo mascherato perché di Tebe, ammirandola, ricorderemo solo il nome del re. Sarri ha il potere di diventarlo ancora. Perché è speciale se solo si ricorda di esserlo. All’Olimpico non aspettano altro, ma non vogliono essere traditi. Sarri ha detto loro di seguirli e se si scoprissero a inseguire un’ombra reagirebbero di istinto. In Amore capita così. L’enciclopedia Treccani alla voce sarrismo è stringata: “La concezione del gioco del calcio propugnata dall’allenatore Maurizio Sarri, fondata sulla velocità e la propensione offensiva». C’è molto di più, ma è necessario cambiare schema. Suo nonno Goffredo, in anni più complessi, seppe come fare. «Era molto fiero di un riconoscimento su carta intestata della Casa Bianca. Da partigiano, recuperò i piloti di un aereo Usa abbattuto in val d’Arno e li nascose. A quei tempi ti fucilavano per molto meno. Li consegnò agli inglesi quando passarono il fronte». Nelle questioni di vita o di morte come nei giochi, anche nei più seri, per non temere gli altri è importante non avere paura del proprio destino. C’è ancora tempo, per chi crede nel tempo.