Lewis Hamilton vive dentro alla sua storia. Cammina in una strada che appartiene alla sua carriera, ai sacrifici fatti per arrivare dov'è oggi, all'alba dei suoi quarant'anni comodo nel ruolo di pilota di Formula 1. Non un ex pilota, non un pilota qualsiasi, ma il pilota più vincente della storia del suo sport. Una tuta, quella che lo ha portato dov'è oggi, che Hamilton ha iniziato a indossare da bambino, un mantello da supereoroe contro il pregiudizio, l'odio, il senso di inferiorità.
Perché nel suo mondo Lewis Hamilton è sempre stato l'unico. L'unico bambino nero in un ambiente fortemente bianco e privilegiato, uno dei pochissimi non benestanti, uno degli unici che per quel sogno sembrava disposto a rinunciare a qualsiasi cosa. "L'ho fatto", dice Hamilton nell'ultima intervista rilasciata per GQ, "Quando sono entrato in F1 mi sono dovuto preoccupare fin dalla sveglia solo di allenarmi, correre, correre, correre e nient’altro. Non c’è spazio per il resto. Però mi sono reso conto che lavorare e basta non dà la felicità: bisogna trovare un equilibrio nella vita. È stato così che ho scoperto di essere, in realtà, abbastanza infelice".
Non ha avuto bisogno di imparare a coltivare il suo unico grande sogno, quello di diventare un grande pilota, ma al contrario ha dovuto fare i conti con il dopo, con la vita fuori da quella che Hamilton chiama "una palla di vetro con la neve". Il mondo delle corse, il paddock, i luoghi del mondo visti attraverso un finestrino, sempre di fretta, sempre seguendo regole di orari, diete, allenamenti, impegni mediatici. E' un percorso al contrario, quello di Lewis, una cura all'ossessione della Formula 1: "Mancava qualcosa, c’era molto di più in me. Ed è stato pazzesco, perché pensavo: “Corro in Formula 1, ho raggiunto il mio sogno, mi trovo dove ho sempre voluto essere, sono al top, sto lottando per il campionato. Ma non...”. Non mi divertivo".
Da lì la vita in America, la passione per la moda, la musica e oggi il cinema. Sono mondi fuori dal suo mondo, universi che il Hamilton riesce ad esplorare - racconta nell'intervista di GQ - quando il rombo dei motori si ferma e facendolo sa che quando, un giorno, smetterà di correre, la sua vita non sarà vuota: "Ho capito che non posso correre per sempre. Le passioni che ho coltivato mi servono perché così, appena smetterò, lascerò il microfonino delle comunicazioni via radio e sarò felice".