Il giorno in cui dovesse avere figli, se li vorrà, Sofia Goggia farebbe realmente fatica a rendersi autorevole urlando loro quelle cose che tutti i bambini si sentono dire durante la giornata, cose tipo “fermo!” o “attento!” che - i genitori lo sanno - vengono rivolte loro più volte di quante non li si chiami per nome. Ma attento a cosa, mamma, se 23 giorni dopo esserti sostanzialmente frantumata una gamba sei andata a Pechino per giocarti una medaglia olimpica in una discesa?
Ecco: Sofia Goggia non solo se l’è giocata, ma l’ha pure vinta la medaglia e ha persino un po’ rosicato - ma solo un po’, la felicità era evidente - perché alla fine non era l’oro che era andata a difendere (l’aveva già vinto a Pyeongchang 2018) ma un argento, “che - parole riportate da Olympics.com - è comunque una medaglia”.
Comunque una medaglia. Sofia Goggia è l’elogio dell’incoscienza, dell’audacia, dell’ambizione, dell’agonismo feroce, dello sport nel suo motto olimpico (citius, altius, fortius), dove però conta vincere perché quello è il bello della sfida. Sarà anche tifosa juventina, Goggia, ma non è una da corto muso, o meglio: nello sci alpino si vince di corto muso per definizione - perché decidono i centesimi - ma la sua storia recente è quella di una fuoriclasse che in pista non va mai per l’obiettivo minimo, nemmeno quando le condizioni lo suggerirebbero. Perché Goggia, che aveva già le mani sulla sua terza coppa del mondo di discesa, a meno di un mese dall’Olimpiade di Pechino, il 23 gennaio, si era presentata al cancelletto di partenza del Super G di Cortina finendo per cadere e procurarsi un trauma distorsivo con lesione parziale del legamento crociato, piccola frattura del perone al ginocchio sinistro e sofferenza muscolo-tendinea.
Chi oggi grida al miracolo svilisce il lavoro di medici, fisioterapisti, allenatori e della stessa atleta: alla discesa di Pechino non è arrivata per un miracolo né per la magia della favola - su, non c’è bisogno di retorica - ma perché non ha perso tempo, perché non ha cercato alibi né dato la colpa ad altri, perché ha evitato di dare per scontato che fosse finita, perché la memoria degli infortuni - tanti, spesso gravi, più di una volta giunti quando avrebbe potuto evitare di forzare: di qui l’audacia, l’indomito spirito agonistico - l’ha aiutata a capire i limiti e a pensare che in fondo di limiti quando si ha un obiettivo non ce ne sono. Al massimo l’obiettivo non si raggiunge, e pazienza. E pazienza se a Pechino non è volata subito perché doveva recuperare - lavoro, mica favola -, pazienza se per questo ha perso l’opportunità di essere la portabandiera alla cerimonia inaugurale - in fondo è solo forma e vestiti improponibili, perché la sostanza per gli agonisti è la gara - e pazienza anche se la discesa l’ha vinta Corinne Suter, perché nell’immaginario collettivo l’ha vinta lei ed “è comunque una medaglia”. Alla quale si aggiunge il bronzo di Nadia Delago.
La realtà è che, al di là dell’epica che spesso si accompagna alla narrazione delle gesta di un campione, altri atleti con le caratteristiche combattive e competitive di Sofia Goggia l’Italia oggi non ne ha. Non così.