Il calcio è testa e piedi. Zidane è il calcio. Il calcio moderno. Perché Zidane usa la testa, in campo e in panchina. La testa la utilizza a proposito e a sproposito, ma sempre in modo artistico. Crea atti, non compie azioni. I piedi li muove in conseguenza agli atti creati dalla sua mente, più a proposito che a sproposito. Ma pur sempre in modo creativo. È un artista moderno prestato al gioco più bello del mondo. Un artista che non produce capolavori. Zidane è un capolavoro e oggi compie 50 anni. Parafrasando Andrea G. Pinketts, scrittore che aveva l’ardire di firmarsi con quella G. che non era l’iniziale di un secondo nome ma l’appellativo di Genio, Zidane ha “il senso della frase”. È il titolo della sua opera più riuscita, dove scrive: “Il senso della frase è il sesso della frase, il suono della frase, il significato della frase”. Sostituite “giocata” a “frase” e avrete l’esatta definizione di quello che Zizou ha donato al calcio: “È il punto di non ritorno. Un punto e basta. Un punto esclamativo. Non so se si nasca con il senso della frase. Di sicuro ci si muore”.
Zidane è morto, calcisticamente, con il senso della frase-giocata quel 9 luglio 2006 all'Olympiastadion di Berlino. Un colpo di testa per scagliare il pallone oltre Buffon lo avrebbe proiettato nell’Olimpo del calcio; il colpo di testa con il quale ha abbattuto Materazzi, invece, lo ha costretto ad arrivare in cima al monte sacro attraverso una via impervia. Ma credere che per questo non rientri fra gli dèi dello sport è come “chercher la petite bête”, dicono i francesi: sforzarsi (inutilmente) di trovare un difetto senza importanza. La Juve ne ha avuta dimostrazione a Cardiff.
Calcio, ballo, amore
Zinedine Yazid Zidane, nato a Marsiglia il 23 giugno ’72 e originario di Aguemoune Ath Slimane in Cabilia, cioè in Algeria, è stato l'allenatore del Real Madrid. Strana la vita, soprattutto degli artisti. Diventato grande con la Juventus e dopo aver vinto tutto con le merengues come giocatore, nelle finali di Champions aveva un solo avversario: sé stesso. È riuscito a eguagliarsi. Il calcio è un romanzo, pochi dubbi.
Ma il franco-algerino è stato prima di tutto un protagonista sublime di questo sport. La veronica la sua specialità, in Spagna chiamata ruleta. È strana la vita, soprattutto per gli artisti: Zidane ha sposato una ballerina di nome Véronique, che tradotto sarebbe Veronica. Calcio, ballo, amore.
Una roulette. A voi la puntata.
La veronica, nonostante la finezza del gesto, non si impara alle scuole calcio. È pura tecnica di strada per evitare marciapiedi, palazzi, auto parcheggiate, che viene provata e riprovata su piazze di cemento o strade polverose. Come Place de la Tartane, periferia di Marsiglia, quartiere La Castellane, dove è cresciuto giocando “7 anni per 6 ore al giorno”, prima di entrare nel settore giovanile del Saint Henri.
Per strada lo chiamavano Yazid, abbreviato in Yaz. Come un califfo arabo, dal carattere forte in linea con la sua discendenza dal popolo berbero: rivoltoso e insofferente al potere. In strada se ti permetti delle leziosità devi aspettarti qualche “stecca”; colpi bassi per cercare di farti abbassare la cresta. Da quell’ambiente nasce il combat foot, calcio da combattimento: per capire i colpi di testa di Zidane, a proposito o a sproposito, basta fare un salto a La Castellane tra i duri di Marsiglia. Dove ogni azione corrisponde a una reazione. Anche per questo ha frequentato un corso di judo arrivando alla cintura marrone, che sulla strada è un lasciapassare ai dribbling.
Yazid, figlio del muratore Smail e di Malika giunti in Europa nel ‘53. Immigrati d’Algeria. Dalla Cabilia, regione delle cinque tribù che diedero del filo da torcere ai colonizzatori, che fossero romani, arabi o francesi. Gente libera, che conosce solo una legge: ad azione corrisponde reazione. Zidane in arabo significa “bellezza della religione”. Si è comunque sempre professato un musulmano moderato. Troppo libero anche per leggi trascendenti.
Le prime lacrime
Dal porto di Marsiglia alla Costa Azzurra. Dalla malavita al festival del cinema. Yazid ha 14 anni quando, giocando nel Septèmes Les Vallons, viene convocato per uno stage al Centro di addestramento giovani di Aix-en-Provence. È qui che incontra Jean Varraud, osservatore del Cannes. Il destino è dalla sua parte, come di tutti i predestinati. L’osservatore era presente per visionare un altro baby fenomeno, Monachino, che però non si presenta. Inevitabilmente il suo interesse viene catalizzato dal numero 11, che prima gioca sulla fascia e poi come libero. In difesa è un disastro, la veronica è più controproducente che efficace. Il controllo di palla, però, è sopraffino. E la personalità trasuda dalla casacca.
“Mi interessa quel ragazzo”, dice Varraud. Gli rispondono: “Se lo pigli, è un violento”.
“Era un guerriero da calcio di strada. Usava poco il sinistro, ma roteava il destro a una velocità impressionante” dirà poi l’osservatore. E così Yazid sbarca a Cannes. Via da papà, mamma e i 4 fratelli, trova alloggio dal dirigente Jean Claude Elineau e sua moglie Nicole. Una seconda famiglia, che se ne infischia dei pregiudizi dei vicini: “Vi mettete un arabo in casa?”. Un bullo in strada ma un animo fragile nella vita di tutti i giorni. Racconterà da adulto: “Pensavo che ognuno avesse diritto a una sola persona che ti sveglia la mattina e ti fa trovare tartine imburrate. Io ne ho avute due, però nella stanzetta della casa dei signori Elineau all’inizio piangevo ogni notte”.
Il nuovo Platini ripudiato da Platini
“Non credo che Zidane sarà il nuovo Platini: io ero più concreto, i suoi gol sono eccezioni”. Le Roi in campo, meno nobile nella visione del talento altrui. Forse solo insofferenza del maestro verso l’allievo. Yazid sta infatti lentamente lasciando spazio a Zizou. La prima offerta importante è dell’Auxerre ma la famiglia si oppone per non allontanarlo da una realtà che lo sta facendo diventare uomo, prima che professionista. Anche perché il ragazzo è ancora preda di antichi spettri. Nel match con il Nizza a un certo punto trotterella, poi all’improvviso si blocca davanti al difensore e lo colpisce con una testata. La testa, usata a sproposito. La strada, il combat foot.
Nonostante le intemperanze debutta a 17 anni in Ligue1 il 18 maggio ‘89 contro il Nantes. Tanto entusiasmo, corse a vuoto, ma il pallone non lo vede mai. Dovranno passare altri due anni prima di rimettere piede in prima squadra. È il 1991 e arriva il primo gol, guarda caso contro il Nantes. È ancora presto per parlare del nuovo Platini, ma certamente il ragazzo cresce a vista d’occhio. E con la permanenza nel Cannes scopre che le veroniche imparate per strada possono allinearsi ad altri due elementi, come il ballo e l’amore. È grazie a Véronique Fernandez Lentisco, ballerina della scuola di danza locale, che Zidane scoprirà la forza del numero perfetto.
Il timido Zizou conquista il mondo
È ora di cambiare aria. La Costa Azzurra gli va stretta. Trovato l’equilibrio tecnico, quel che manca è il contenitore. Perché, non dimentichiamolo, il calcio è pur sempre un gioco di squadra. Rolland Courbis lo piazza nel fulcro della manovra. Intorno a lui ruotano promesse come Lizarazu e Dugarry e tanti altri giovani interessanti. I risultati arrivano: nel ’96 in Coppa Uefa è il Milan a farne le spese anche se in finale i francesi si infrangono su un monolitico Bayern Monaco. Ma il dado è tratto e non resta che qualcuno punti sul numero giusto. Galliani sbaglia, prende Dugarry. La Juve ci vede lungo e lo mette sotto contratto.
La cifra, nonostante i dubbi per un giocatore considerato “più divertente che utile”, sentenziò l’avvocato Agnelli, è considerevole: 10 miliardi di Lire. E poi l’ambientamento: Torino è fredda, con una nebbia così fitta che in alcune giornate si fatica a palleggiare. Si sprecano gli accostamenti a Platini e in squadra c’era un altro beniamino del popolo bianconero: Alessandro Del Piero. Zizou non ci mette del suo per rompere il ghiaccio. In partita cede le punizioni a Padovano, che non crede ai suoi occhi: “Chiedeva a me di tirarle, quando in allenamento ne segnava 10 su 10. Aveva paura di sbagliare”. È Lippi, allenatore che ritroverà nella finale di Berlino (strana la vita, soprattutto degli artisti), che lo sprona. Da quel momento in poi sarà un crescendo senza sosta. L’Italia vanta il campionato più difficile al mondo, ricco di campioni. E Zizou si iscrive al club più esclusivo. Rimane solo un rimpianto. Anzi, due: le finali di Champions perse in serie contro Borussia Dortmund (’97) e Real Madrid (’98). Nonché dal riemergere dei soliti fantasmi. Da scacciare a suo modo: come la testata a Jochen Kientz dell’Amburgo.
La testa, usata a sproposito. La strada, il combat foot.
Nel mentre, scopre che la testa può essere usata anche a proposito. Al Mondiale in Francia del ‘98, Zidane rimedia un rosso contro l’Arabia Saudita per aver “camminato” su un difensore. In finale, però, sostituisce l’avversario al pallone e con la testa lo insacca due volte. Finisce 3-0 contro il Brasile. È Campione del Mondo. Appare evidente che la nebulosa si è trasformata in una stella cometa e sulla scia finisce il Pallone d’Oro del ’98.
Il ritorno dei Galacticos
Quanto tutto sembra andare a meraviglia e i tifosi bianconeri sono certi di aver trovato l’erede di Le Roi, entra in gioco un dio minore ma spesso malefico: il denaro. O forse il destino. È il 2001 e il Real Madrid offre alla Juve una cifra imbarazzante. I 150 miliardi di Lire che permettono alle merengues di acquistare il suo cartellino sono una sentenza e il termine plusvalenza entra nell’immaginario calcistico. Un affare che all’epoca appare scriteriato, però, riesce a dare i suoi frutti. Che arriveranno per il club e per il giocatore. Al primo anno nei blancos arriverà subito la Champions tanto agognata e sarà riesumato un altro termine che era scomparso dagli anni ‘50: Galácticos. Si tratta della fusione in un’unica squadra di Zidane, Figo, Beckham e Ronaldo. Era stato coniato per la formazione del Real che contava fra le sue fila Di Stéfano, Puskás, Kopa, Santamaría e Gento. Dopo 50 anni trovarono i loro degni successori.
In particolare Zizou, nella finale di Glasgow contro il Bayer Leverkusen compie qualcosa che fino a quel giorno poteva solo essere immaginato. La palla scende a campanile su cross di Roberto Carlos, Perfettamente perpendicolare al terreno. Forse semplice da stoppare, ma impossibile da spedire in porta. Il calcio è testa e piedi. La testa lancia un input, non è detto che i piedi siano in grado di rispondere. La fantasia è una cosa, la realtà un’altra. E la fantasia, spesso, al cospetto della realtà risulta comica. Il Genio, però, è colui che compie atti, non azioni. Zidane è al limite dell’area di rigore, apparentemente impassibile. Non si cura degli avversari. Non esistono. L’atto è una faccenda per solitari. Osserva il pallone scendere rimanendo voltato con il corpo verso il portiere. A un certo punto, quando la palla sta per arrivare a livello del fianco, compie una rotazione con la gamba sinistra e la colpisce con tutta la forza che ha in corpo. Un gesto che viene da lontano. Dal calcio di strada - il combat foot -, dal judo, dal ballo. Il pallone è oltre la rete. Non si sa come. È amore.
La malinconia di Zidane
Zidane abbiamo imparato a conoscerlo, ma mai abbastanza. Ottiene un anno dopo anche la vittoria nella Liga di Spagna. Tutto va per il meglio. Ecco il momento per stupire. Nel bene e nel male. Le stagioni successive saranno altalenanti. Tante varoniche, pochi titoli. È semplicemente la calma prima della tempesta. “Gioco il Mondiale in Germania e mi ritiro. Col Real ho risolto il contratto”. L’annuncio scuote i madridisti, così come il mondo dello sport. È il 2006. Il suo torneo è perfetto. Nonostante l’età è decisivo come trascinatore. La finale arriva, nonostante la spalla e oltre al fisico ormai dilaniato dalle piroette. La scena madre lo attende per compiere l’atto supremo. L’ostacolo è l’Italia, arrivata in fondo grazie all’esperienza di campioni maturi sotto la guida di Marcello Lippi (strano il destino, soprattutto per gli artisti) e gente che meriterebbe un romanzo a parte: leggere alla voce Fabio Grosso.
Tutto sembra andare a meraviglia. Sembra... Zidane porta avanti la Francia con un rigore battuto come solo un folle o un artista potrebbe fare: scavino con il pallone che colpisce la traversa e si appoggia oltre la rete per poi andarsene altrove. La storia sembra scritta. Sembra… Materazzi (proprio lui, strano il destino…) pareggia con un colpo di testa. È a questo punto che avviene l’impensabile. E persino l’invisibile agli occhi. L’osceno. Il fuoriscena.
È il secondo tempo supplementare quando proprio Materazzi si accascia a terra e sugli schermi dell’Olympiastadion di Berlino inizia a scorrere un replay: Zidane che abbatte il difensore azzurro con una testata. Una scena descritta in tanti modi, passato oltre un decennio, ma sulla quale si è esercitato lo scrittore francese Jean-Philippe Toussaint in una plaquette magistrale. A lui la parola: “Zidane guardava il cielo di Berlino senza pensare a nulla, un cielo bianco sfumato di nuvole grigie dai riflessi azzurri, uno di quei cieli di vento immensi e mutevoli della pittura fiamminga, […] e provava con un’intensità straziante il sentimento di essere là, semplicemente là, dentro lo stadio olimpico di Berlino, in quel preciso momento del tempo, la sera della finale della Coppa del mondo di calcio. […] Il vero gesto di Zidane la sera di questa finale – gesto improvviso come un’esplosione di bile nera nella notte solitaria. […] Un istante di ambiguità perfetta sotto il cielo di Berlino, alcuni secondi di ambivalenza vertiginosa, dove la bellezza e bassezza, violenza e passione, entrano in contatto e provocano il corto circuito di un gesto inaudito. La testa di Zidane ha avuto la subitaneità e la scioltezza di un gesto calligrafico […] ignora le categorie estetiche del bene e del male, il suo valore, la sua forza e la sua sostanza dipendono solo dal loro adeguamento non riconducibile all’istante preciso del tempo in cui è avvenuto. […] C’è sempre stata in lui l’impossibilità di mettere fine alla sua carriera, e anche, e soprattutto, in bellezza, perché finire in bellezza non è nemmeno finire, è chiudere la leggenda: alzare la Coppa del mondo è accettare la propria morte, mentre mancare l’uscita di scena lascia delle prospettive aperte, sconosciute e vive. […] La malinconia di Zidane è la mia malinconia, la conosco, l’ho nutrita e la sento. Il mondo diventa opaco, gli arti sono pesanti, le ore sembravano appesantite, sembravano più lunghe, più lente, interminabili. Si sente stremato e diventa vulnerabile. […] la fascia di capitano che non smette di scivolare giù, la sua fascia che si sfalda e che lui non smette di aggiustare maldestramente sul braccio. […] La forma, adesso, gli resiste – ed è inaccettabile per un artista, conosciamo bene i legami che uniscono l’arte alla malinconia. Incapace di segnare un gol, segnerà le menti. […] Zidane era stato raggiunto dalle divinità ostili della malinconia. […] Il gesto di Zidane, invisibile, incomprensibile, è tanto più spettacolare in quanto non ha avuto luogo. Non ha semplicemente avuto luogo, se ci si rifà all’osservazione diretta dei fatti nello stadio e alla confidenza legittima che possiamo accordare ai nostri sensi, nessuno ha visto nulla, né gli spettatori né gli arbitri. […] Solo la fuggevole pulsione che ha attraversato la mente di Zidane è stata visibile agli occhi dei telespettatori del mondo intero”.
Il numero perfetto
Zidane è l’alfa e l’omega del calcio. In campo e in panchina. Usando la testa, a proposito o a sproposito. A Madrid ha ottenuto successi che nessuno avrebbe immaginato. Tre Champions di fila e la Liga. Ma soprattutto è riuscito a mantenere la parola data. Quella che solo un folle o un artista sarebbe stato in grado di onorare: Era il 2003, un anno dopo il trionfo di Glasgow: “Al Real voglio conquistare anche la Décima, la Undécima e la Duodécima”. Un risultato da leggenda. Mai nessuno era riuscito a prendersi tre Champions League consecutive. Nessuno prima di Zidane, che lo ha fatto addirittura in soli 18 mesi dal suo debutto da tecnico della prima squadra.
Un tris arrivato dopo che il Real aveva appena festeggiato la vittoria in campionato numero 33: esattamente come la Juventus che quello stesso anno il 3 giugno ha incontrato in Galles. Strano il destino, soprattutto degli artisti. Il numero 3 che torna. Inesorabile. Perfetto. È stato confermato di nuovo: calcio, ballo, amore. Zidane è resuscitato usando la testa, questa volta a proposito. Possedendo “il senso della frase” è morto come calciatore e resuscitato da allenatore.
Zidane abbiamo imparato a conoscerlo? Mai abbastanza. Forse arriverà un altro numero 3 sul cammino? Magari al Paris Saint-Germain. Chissà. Oppure è il momento per stupire? Da tempo si parla di lui per un futuro sulla panchina della Francia. Intanto, a 50 anni oggi, si prepara a altro giro di roulette. A voi la puntata.