Il Giappone ha deciso di puntare sul rilancio dell'industria dei semiconduttori, i minuscoli componenti dei prodotti elettronici che usiamo quotidianamente. Il governo guidato da Fumio Kishida ha sostenuto la costruzione di nuovi impianti. L'obiettivo è chiaro: Tokyo vuole tornare al centro del mondo e (ri)diventare campione dei chip. Basti pensare che nel 1988 le aziende giapponesi rappresentavano il 51% delle vendite mondiali dei semiconduttori, e che nel 2021, stando alle stime della Japanese Electronics and Information Technology Industries Association, la produzione di chip made in Japan valeva appena il 7% della torta globale. In mezzo c'è stata una guerra commerciale dimenticata con gli Stati Uniti, con questi ultimi che hanno messo i bastoni tra le ruote del loro partner asiatico, un accordo sui semiconduttori tra Tokyo e Washington (nel 1986, che ha dato ai funzionari americani il controllo sulla fissazione dei prezzi dei semiconduttori e agli Usa l'accesso al mercato giapponese degli stessi), una lunga stagnazione economica e l'avvento della concorrenza (Corea del Sud, Taiwan e Cina). In definitiva, negli ultimi 40 anni la gioielleria giapponese dei semiconduttori è stata depredata. Adesso, complice gli sforzi degli Stati Uniti volti a limitare la capacità di produzione di chip della Cina, ecco che il Giappone ha pensato (o per meglio dire è stato spinto) a rispolverare un suo vecchio fiore all'occhiello.
Rapidus: cosa prevede il nuovo piano del Giappone
I funzionari giapponesi auspicano un aumento delle entrate annuali derivante dal settore dei semiconduttori di oltre 13 trilioni di yen (un'ottantina di miliardi di euro) da conseguire entro il 2030. Il grande progetto del Giappone per riuscire nell'intento si chiama Rapidus, una startup di chip costituita da un consorzio di aziende nazionali, tra cui Toyota Motor, Sony Group, Ntt, Softbank e Denso. Il governo ha messo sul tavolo 510 milioni di dollari di sussidi mentre ciascuna delle società elencate ha investito nel piano 6,8 milioni di dollari. L'intenzione di Tokyo consiste nel creare un campione nipponico nel campo dei semiconduttori in grado di trasformare il design dei chip da 2 nanometri (nm) in silicio dell'americana Ibm, per poterli produrre su larga scala da qui al 2027. Detto altrimenti, Rapidus si prefigge di creare chip all'avanguardia da zero come componente di una visione nazionale più ampia, coincidente con la costruzione di un ecosistema ispirato alla Silicon Valley. Nello specifico, il programma prevede lo sviluppo di un cluster di produzione di chip che si estenda in tutta la nazione, con un comodo accesso a numerosi porti del Paese. “La mia grande ambizione è realizzare una Hokkaido Valley che si estenda da Tomakomai a Ishikari e che possa competere con la Silicon Valley in termini di dimensioni”, ha dichiarato il Ceo della startup, Atsuyoshi Koike. Annunciato nel febbraio 2023, Rapidus prevede di costruire una fabbrica per avviare le operazioni di linea pilota, che dovrebbe essere il più avanzato della nazione, a Chitose, a circa 36 chilometri a sud-est di Sapporo, la capitale della prefettura di Hokkaido. L’investimento da solo viene salutato come un’enorme vittoria economica per Hokkaido, e stimato in un valore di circa 5 trilioni di yen (37 miliardi di dollari). Koike sostiene che l'azienda avrà bisogno di 2mila miliardi di yen per la ricerca e lo sviluppo prima di avviare la produzione di prova, e di 3mila miliardi di yen per avviare la produzione di massa di semiconduttori. Finora, secondo il governo giapponese, la startup di chip ha un accordo di cooperazione con l'Interuniversity Microelectronics Center (Imec), sviluppatore belga di nanotecnologie. Anche la californiana Lam Research Corp e il produttore olandese di apparecchiature per semiconduttori Asml Holding Nv stanno valutando la possibilità di piazzarsi nell'Hokkaido. Secondo un report del Center for Strategic and International Studies (Csis) la collaborazione Rapidus-Ibm-Imec è senza dubbio una delle più ambiziose nella storia dell'industria globale dei semiconduttori. Basterà l'Hokkaido Valley per far tornare il Giappone al centro del mondo? Forse sì, ammesso che Tokyo non ripeta gli errori del passato.
Lezioni dal passato: quando Tokyo era sulla cresta dell'onda
Al termine della Seconda Guerra Mondiale l'industria nipponica, uscita con le ossa rotte dal conflitto insieme a tutta la nazione, è stata supportata e sostenuta dal governo con ogni mezzo possibile. Ben presto Nissan, Toyota, Toshiba, Panasonic, Sony e tante altre società giapponesi iniziarono a realizzare prodotti economici ed efficienti che ben presto avrebbero invaso i mercati occidentali. Il miracolo economico giapponese iniziò così: grazie all'esportazione di mercanzia sempre migliore e strategica. Dal 1955 al 1990, la crescita economica del Giappone è stata in media del 6,8% annuo e il suo pil si era moltiplicato otto volte. Dalle fibre sintetiche all'acciaio, dalle automobili ai televisori passando ai semiconduttori, sembrava che nessuno, in Occidente, potesse più fare a meno di questo Paese. Tokyo non solo era riuscita a risollevarsi dalle macerie: stava silenziosamente plasmando l'immaginario europeo e statunitense con merci che sarebbero presto diventate iconiche. Già, perché al netto dei lettori cd Sony e delle avveniristiche auto (memorabile la Toyota Corolla), da qui iniziarono ad arrivare nei mercati occidentali le famose console videoludiche (Nintendo, PlayStation, Game Boy e similari) nonché tante altre mode esotiche (manga, anime, sushi). Il Giappone era insomma riuscito a mettere in scacco l'Occidente facendo leva, da un lato, sull'export di merci (o tendenze) di qualità – di qualità quanto bastava per sbaragliare la concorrenza – e dall'altro su un soft power per certi versi ancora più attraente di quello incarnato da Hollywood. Il made in Japan era semplicemente un ventaglio in grado sia di calamitare le nuove generazioni che di attirare l'attenzione delle vecchie generazioni.
Lo scontro con gli Usa
In un certo senso il Giappone, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, era considerato dagli Usa una sorta di Cina ante litteram: una minaccia geopolitica da disinnescare al più presto. Certo, Tokyo non era una rivale politica di Washington, ma i successi inanellati dai suoi zaibatsu, ovvero i grandi gruppi finanziari, industriali e commerciali costituiti da un certo numero di imprese raccolte intorno ad alcune holding, stavano offuscando i traguardi raggiunti dalle aziende statunitensi ed europee. All'epoca il Giappone era insomma visto come fumo negli occhi dagli Stati Uniti, tanto è vero che nel 1985 gli americani arrivarono ad imporre addirittura una tariffa del 100% sui semiconduttori giapponesi, seguita da una feroce campagna economica antinipponica. Il governo della nazione asiatica era riuscito a creare un motore impeccabile. L'industria del Paese raggiunse vette poderose nell'ambito dell'intrattenimento, dell'automotive ma anche in due settori strategici: quello della tecnologia e dei citati semiconduttori (necessari per produrre praticamente ogni dispositivo elettronico e dai quali dipendevano in gran parte gli stessi Usa). Lo scoppio della “bolla”, negli anni Novanta, avrebbe però gettato il Giappone negli inferi. Dal 1991 al 2002 la crescita del pil reale giapponese è stata in media dell’1% annuo, mentre quella relativa al pil pro capite dello 0,8%; dal 2003 al 2007 le percentuali sarebbero salite rispettivamente al 2,1% annuo e 2%. Altri ritmi rispetto ai ruggenti anni Settanta, Ottanta e Novanta. Se lo scoppio della bolla e la conseguente crisi finanziaria non si fossero verificate, l’economia giapponese sarebbe più grande di almeno il 10% rispetto a oggi.
Lo scoppio della bolla e il soft power
All’inizio degli anni Novanta molti americani (soprattutto esperti, ma anche leader aziendali e una buona parte del pubblico generalista) erano ossessionati dall’ascesa del Giappone. Due dei libri più venduti del 1992 furono il romanzo di Michael Crichton Rising Sun, dedicato alla crescente e sinistra influenza delle aziende giapponesi, e Head to Head: The Coming Economic Battle Among Japan, Europe and America di Lester Thurow, riguardante la guerra commerciale tra Giappone, Europa e Stati Uniti. Nel frattempo, le librerie erano piene di altri tascabili con guerrieri samurai in copertina che promettevano di insegnare ai lettori i segreti del management giapponese. Ebbene, tutta questa ossessione (un mix tra paura, ammirazione e odio) aveva raggiunto l'apice quasi nel momento esatto in cui la straordinaria ascesa del Giappone si sarebbe trasformata in un declino prolungato. I sogni di gloria dei moderni samurai aziendali iniziarono ad infrangersi, come detto, negli anni Novanta. Nel momento in cui l'opinione pubblica mondiale riteneva che il Paese asiatico potesse mettere fine al dominio economico statunitense e diventare così la nuova potenza globale, ecco che da Tokyo si diffuse un frastuono poderoso che avrebbe congelato il dinamismo nipponico per almeno un paio di decenni. Nel 1991 lo scoppio della bolla speculativa giapponese (causata da molti fattori, compresa un'eccessiva liberalizzazione delle norme finanziarie sommata al rapido aumento dei prezzi dei beni immobiliari e ai rischiosi investimenti speculativi di numerose aziende) fece crollare le ambizioni nazionali del Paese, lasciando intendere che gran parte dell'ascesa made in Japan non fosse altro che un castello di sabbia. Eppure, nel 1979, l’economista di Harvard Ezra Vogel era convinto che il Giappone avrebbe presto superato gli Stati Uniti come prima economia mondiale, mentre altri, come l'ex redattore del Financial Times Eamonn Fingleton, mantennero questa convinzione ancora nel 1995. Sia chiaro: il Giappone non è mai crollato. Pur subendo un forte ridimensionamento nelle ambizioni geopolitiche ed economiche il Paese del sol levante era fino a pochi giorni fa la terza economia mondiale, adesso quarta in seguito al sorpasso della Germania. Tuttavia, il soft power non è più sufficiente, da solo, a rendere Tokyo un player strategico (il caso della Corea del Sud insegna). Servono, al contrario, investimenti e progetti orientati verso i settori strategici. Kishida sembrerebbe averlo capito, e per questo ha scelto di puntare sui semiconduttori. Ecco l'ultima, rischiosa scommessa del Giappone. Dal cui esito dipendono le sorti dell'intero pianeta.