Dopo anni di promesse non mantenute, occasioni mancate e previsioni disattese, l'India ha una nuova, e questa volta anche imperdibile e forse ultima, chance per entrare nel ristrettissimo club delle potenze globali. Narendra Modi, premier in procinto di confermarsi alla guida del Paese asiatico per un inedito terzo mandato consecutivo, ha fin qui sfruttato nel miglior modo possibile tre contingenze internazionali favorevoli: 1) Il braccio di ferro geopolitico tra Stati Uniti e Cina; 2) La crisi economica di Pechino; 3) La necessità da parte delle aziende occidentali di trovare un'alternativa al mercato cinese. Il risultato è che, come ha fotografato il report pubblicato dal think tank Rhodium Group nel settembre 2013 e intitolato Challenges of Diversification Away from China, sempre più aziende statunitensi ed europee stanno spostando i loro investimenti dalla Cina verso altri mercati in via di sviluppo. Tra questi, in particolare, è quello indiano a calamitare la maggioranza del capitale straniero reindirizzato. E non è un caso perché, al netto di molteplici – e per certi versi gravi – criticità ancora da risolvere, la nazione indiana può contare sulla popolazione più numerosa del mondo (oltre 1,4 miliardi di abitanti) e su una classe media in continua crescita. Secondo un paper del People Research on India’s Consumer Economy (PRICE), poi, la middle class dell'India è cresciuta del 6,3% all’anno tra il 1995 e il 2021, rappresenta oggi circa il 31% della popolazione ma dovrebbe raggiungere il 38% entro il 2031 e il 60% entro il 2047. Altro particolare non da poco: questa classe media è giovanissima (il 65% della popolazione ha meno di 35 anni) e ha a disposizione un non irrilevante patrimonio da spendere. È quindi scontato che le multinazionali occidentali, in primis gli attori impegnati nel settore dei beni di largo consumo, siano attratte dalle condizioni indiane. E che, con la Cina nell'occhio del ciclone, stiano pensando di fare il grande passo: lasciare Pechino per sbarcare a Delhi. Apple, ad esempio, ha avviato l'assemblaggio dei suoi smartphone, gli iPhone 15, anche in India, oltre alla Repubblica Popolare Cinese, attraverso il fornitore Foxconn, in un timido tentativo di decoupling da Pechino. Altre aziende, più o meno piccole, potrebbero imitare il colosso di Cupertino. L'India è allora diventata una sorta di nuovo El Dorado economico? Cerchiamo di capirlo.
Il momento dell'India?
Tra il 2021 e il 2022, il valore degli investimenti greenfield annunciati dagli Stati Uniti e dall’Europa in India è aumentato di circa 65 miliardi di dollari, ovvero del 400%, mentre nel 2022 gli investimenti in Cina sono scesi a meno di 20 miliardi di dollari da un picco di 120 miliardi di dollari nel 2018. Questi e altri numeri dicono insomma che svariate aziende occidentali stanno voltando le spalle alla seconda economia mondiale, evidenziando le loro preoccupazioni sul contesto imprenditoriale venutosi a creare oltre la Muraglia, i dubbi sulla ripresa economica del Dragone e gli interrogativi derivanti da un'eventuale vittoria di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali statunitensi (con possibile guerra dei dazi Usa-Cina 2.0). I bassi costi di produzione e la prospettiva di una massiccia classe media attirarono le prime aziende straniere in Cina alla fine degli anni Ottanta, quando il Paese abbandonò il modello economico maoista. Ma adesso, con i consumatori che stringono i cordoni della borsa e i costi di produzione che continuano a salire, il mercato cinese sta perdendo splendore. L'India, in silenzio, è ben felice di sfruttare la contingenza favorevole. Basti pensare che nel 2000 l’economia indiana rappresentava meno del 5% dell’economia statunitense in termini di dollari. Oggi la fetta è salita al 14%. Nel 2022, inoltre, l’India è diventata la quinta economia più grande del mondo, nonché quella con la crescita più rapida, il più alto consumo di dati mobili al mondo, il secondo maggior numero di utenti Internet e il terzo maggior numero di unicorni e startup del mondo. Last but not least, a differenza di quanto avviene in Cina, in India quasi tutti parlano la lingua inglese. Possiamo quindi affermare che Pechino sta consegnando la staffetta a Delhi e che il secolo cinese sarà presto offuscato dal momento indiano?
Perché l'Occidente flirta con Nuova Delhi
Per quale motivo l'Occidente sta flirtando con l'India? Semplice: gli Stati Uniti e i loro alleati considerando, ora più che mai, il Paese di Modi come un affidabile hub di approvvigionamento alternativo a quello cinese. “Quando l'India e gli Stati Uniti lavorano insieme sui semiconduttori e sui minerali critici, questo aiuta il mondo a rendere le catene di approvvigionamento più diversificate, resilienti e affidabili”, dichiarava il primo ministro indiano di fronte al Congresso Usa nel 2023. Gli accordi sulla difesa e sulle tecnologie critiche firmati da Modi e dal presidente americano Joe Biden, così come gli investimenti nell’e-commerce promessi da Amazon.com sul territorio indiano, sono indicativi di come Nuova Delhi venga ritenuta dagli Stati Uniti centrale per le nuove catene di approvvigionamento e per lo spostamento di quelle esistenti dalla Cina. I settori manifatturieri indiani, come quello automobilistico, farmaceutico e dell’assemblaggio di componenti elettronici, potrebbero diventare rilevanti se, come ha promesso Modi, da qui ai prossimi quattro anni l'economia del Paese sarà tra le prime tre del pianeta. Dal punto di vista geopolitico, inoltre, l'Occidente fa leva su Delhi per bilanciare l'ascesa cinese, con Pechino desiderosa di modificare l'attuale ordine globale. In questo, però, Modi ha idee non del tutto compatibili con le posizioni incarnate dalle democrazie occidentali. È vero che l'India è un'acerrima rivale della Cina, fa parte del Quad - il Dialogo quadrilaterale di sicurezza, un'alleanza strategica informale tra Australia, Giappone, Usa e India – ma rientra anche – insieme alla stessa Cina che dovrebbe contenere – nel gruppo dei Brics e nel cosiddetto Sud Globale. La Terza Via indiana non è dunque un abito fatto su misura per l'Occidente, che per il momento sembra però accontentarsi.
Un miracolo a metà
La sensazione è che il miracolo indiano non sia autoindotto, ovvero frutto di riforme interne o piani specifici, quanto piuttosto il riflesso della volontà occidentale di chiudere la Cina in un angolo e poter contare su una valida alternativa al Dragone. Se così dovesse veramente essere – Modi ha stilato una road map e varato alcune riforme, ma la crescita indiana sembra più una conseguenza di cause esterne – allora il momento dell'Elefante rischia di essere limitato nel tempo. Almeno fino a quando non spunterà una “nuova India” sulla quale le aziende occidentali si tufferanno in cerca degli stessi vantaggi, prima trovati in India e prima ancora in Cina. I media continuano intanto a descrivere la nazione indiana come una sorta di El Dorado, un luogo sicuro nel quale indirizzare averi e investimenti. È davvero così? Non proprio. Intanto perché, accanto alle condizioni favorevoli del Paese sopra spiegate, troviamo un sistema infrastrutturale disastroso, unito ad un ambiente socio-economico ancora scarsamente sviluppato. Inoltre, spostare le catene di approvvigionamento è sempre costoso, e la maggior parte delle multinazionali non può permettersi di intraprendere una delocalizzazione su vasta scala della produzione dalla Cina all'India. Delhi, in definitiva, ha l'occasione di laurearsi potenza globale ma, prima di diventare la terra promessa dell'economia internazionale, dovrà fare ancora molta strada.