La crisi delle banche italiane, forse, è finita per sempre. E col senno di poi possiamo dirlo: troppo tardi, con troppe spese per i contribuenti. Il fatto, ripreso dalla Dataroom di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera, mostra la fine dei risarcimenti dopo il più grande scandalo bancario dell’ultimo decennio. Otto anni dopo il tracollo di Veneto Banca e Popolare di Vicenza, si è finalmente concluso il più vasto e oneroso processo di risarcimento per i clienti defraudati dalle banche. Tuttavia, ci si chiede chi abbia effettivamente pagato per risarcire i danni e salvare le due istituzioni venete, che per decenni hanno rappresentato un motore trainante per l'economia del nordest, sembrando godere di ottima salute finanziaria. La crisi esplose tra il 2013 e il 2015, quando la Banca d’Italia e la Bce hanno imposto un giro di vite sulle banche venete dopo aver scoperto gravi irregolarità nei bilanci. Prestiti inviati a clienti esposti e fragili, frodi nei profili dei clienti presentati come più esperti finanziariamente di quanto fossero nella realtà e buchi contabili, contribuirono a imporre alle banche venete la risoluzione della crisi tramite il sostanziale azzeramento del patrimonio e dei valori obbligazionali. Come riporta Milena Gabanelli, il risarcimento si è avviato con “Un miliardo e mezzo di euro pescato dai depositi dormienti, cioè quei conti correnti fermi da 10 anni perché gli intestatari sono defunti e non ci sono eredi a reclamarli, e che per legge dovrebbero finire nelle casse dello Stato”. Ad averne diritto “persone fisiche, imprenditori individuali, associazioni e microimprese, compresi alcuni di coloro che avevano ‘perso’ gli arbitrati perché non avevano subito nessuna frode ma semplicemente fatto consapevolmente una speculazione poi finita male”. Altri fondi sono arrivati dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e, in parte, da Intesa San Paolo che ha acquisito le due banche. Tutto questo sei anni dopo che nel 2017, durante il governo Gentiloni, Il governo italiano ha deciso di affiancare un aiuto di Stato alla procedura di liquidazione coatta, che però ha col senno di poi coperto solo una parte della crisi.
“La soluzione della crisi è consistita nella liquidazione coatta amministrativa delle due banche e nella contestuale cessione a Intesa Sanpaolo (di seguito Intesa) di attività e passività delle stesse”, scriveva nel 2017 la Banca d’Italia, ma ben guardando al tema si nota che il rimborso arrivato è stato una frazione del totale messo in campo. La Banca d’Italia notava allora che il governo giustificò la scelta della liquidazione coatta perché in alternativa “i depositanti non protetti dalla garanzia, insieme con gli obbligazionisti senior, avrebbero dovuto attendere i tempi della liquidazione (vari anni) per ottenere il rimborso (circa 20 miliardi). Il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) avrebbe dovuto far fronte a un esborso immediato per circa 10 miliardi, e a rivalersi sulla liquidazione negli anni successivi”, tutto questo mentre “lo Stato sarebbe stato chiamato all’immediata escussione della garanzia sulle passività emesse dalle due banche per un importo di circa 8,6 miliardi”. La priorità fu data allora, legittimamente, alla continuità operativa dei rapporti delle due banche sui territori di riferimento. Ma non dimentichiamoci che allora l’impiego del Fitd, che avrebbe potuto sdoganare un aiuto diretto di maggior rilievo, era frenato da motivi politici e dalla bagarre tra Italia e Ue. Nel marzo 2019, la Corte Ue ha accolto la posizione dell'Italia e respinto completamente la Commissione europea, stabilendo che l'intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) nel caso Tercas del 2015 non doveva essere considerato un aiuto di Stato. Questa decisione ha ribaltato una precedente sentenza dell'Antitrust europeo, basata sull'iniziativa della commissaria alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager. La quale paralizzò l’impiego del Fitd nelle crisi successive, comprese quelle venete. Il Fitd, un consorzio di obbligazionisti che utilizza fondi privati delle stesse banche anziché denari pubblici nella risoluzione delle crisi bancarie, avrebbe potuto evitare l’effetto contagio. A causa dell'interruzione dell'intervento nel caso Tercas, il fondo non ha potuto svolgere un ruolo chiave durante la crisi delle banche italiane negli anni successivi, quando la cura da cavallo imposta dalla vigilanza Ue sui crediti deteriorati e altre problematiche si è conclusa con l’applicazione della rigida normativa europea sul salvataggio coi fondi interni alla banca, ivi compresi i risparmiatori con depositi oltre 100mila euro. Parliamo del cosiddetto bai-in, che ebbe conseguenze gravi per il nostro sistema finanziario. Quattro banche (Etruria, Chieti, Ferrara e Marche) sono collassate a seguito dell'applicazione rigorosa delle norme sul bail-in, mentre Monte dei Paschi di Siena è stata nazionalizzata. Carige e Popolare di Bari hanno sofferto e le Venete sono state assorbite in Intesa. Oggi, mentre le banche italiane sono ai livelli record di utili e marginalità, è bene ricordare che anche le crisi del passato non nascono dal nulla. E che il sistema Italia ha pagato con risorse sottratte al nostro sviluppo e al progresso del Paese crisi di questo tipo, con danni di immagine che si potevano evitare. E che hanno portato ai contribuenti molte meno risorse di quanto potevano arrivare se la Commissione europea e la pavidità politica nazionale non avessero tardato le ali alla gestione di queste crisi.