Al ristorante si va, si mangia e si beve, si parla e si ride. Ma “partecipare” a un ristorante non l’avevo mai sentito. A dirlo è chi ha vissuto da detenuto, ma anche da cameriere. Contemporaneamente e nello stesso posto: il ristorante “In Galera” dentro il carcere di Bollate, a due passi da Milano. Con il documentario “Benvenuti in Galera” di Michele Rho, poi, questa storia è venuta fuori e adesso viaggia nelle sale italiane, per raccontare la dignità del lavoro. “Era importante trasformare la morbosità che si ha spesso nell’affrontare il tema della vita dei detenuti in una storia importante, quale è questo progetto”, dice Silvia Polleri, fondatrice del ristorante e mamma del regista Michele, già esordiente nel 2011 a Venezia con il film “Cavalli”. Un luogo fisico e un luogo cinematografico che si incontrano, portandosi a traino le anime che popolano questa storia. Vite a metà, vite parallele, vite che rallentano e poi riprendono la loro corsa. Le abbiamo incontrate al cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti a Roma, dove il progetto è stato presentato. Uno dei focus su cui si è concentrato Michele riguarda il tono che doveva avere la pellicola. L’impressione è che somigli a quello della domenica a tavola: tutte le persone si inseriscono nella trama, ognuna con la sua umanità, che emerge a morsi e sorsi, con una cruda e sublime nonchalance. Piccola parentesi: come in altri casi, anche questo articolo vuole essere semplicemente la fotografia di un’esperienza, senza lanciarsi in commenti sul cinema o sulla gastronomia. Una cucina senza pregiudizi e una sala elegante, dove alle pareti spiccano le locandine dei grandi film ambientati in carcere e dove lavorano persone detenute nell’istituto di Bollate: “fisicamente” il ristorante In Galera è questo, con un altro spazio dove si lavora alle preparazioni e si mangia tutti assieme prima del servizio.
Noi lo visitiamo dalla prospettiva di Michele, con l’occhio dietro al suo obiettivo. Il locale esiste dal 2015, quando Silvia, che già lavorava con i detenuti nel catering che gestiva da 20 anni, accetta la sfida e apre i battenti qui. Il documentario, in bianco e nero, descrive la vita dei detenuti che scorre dentro il ristorante, con scene di quotidianità, in cui – come in ogni luogo di lavoro – si passa da momenti di goliardia ad attimi di tensione, e interviste ai protagonisti che hanno il sapore del sacrificio, del dolore e del riscatto. Tutto si svolge veloce tra i fornelli e i tavoli di In Galera, con qualche scena anche nella cucina principale del carcere, dove il tempo invece scorre lento, quando non si ferma del tutto. “Sapevo che prima o poi avrei voluto raccontare questa storia e a un certo punto gli astri si sono allineati, ma con tempistiche casuali. Adesso sta avvenendo una sorta di cortocircuito per cui chi conosce il film va al ristorante e chi già andava al ristorante va a guardare il film. Prima di girare ho trascorso giorni e giorni in questi luoghi, semplicemente per osservarli. Avevo bisogno di capire i tempi e la routine, di conoscere le fasi del lavoro”. È un “ristorante che racconta” dice Silvia, che seleziona il personale con un’attenzione chirurgica al background di ogni detenuto, il quale ovviamente deve essere anche in una fase del suo percorso detentivo idonea a questo impiego. “Già è difficile aprire un ristorante normale e mandarlo avanti – commenta Michele – figuriamoci qui, dove c’è un continuo via vai di personale e devi essere sempre pronto a modificare gli ingranaggi. E così pure il documentario, che ha avuto una lunghissima gestazione perché volevo trovare il modo giusto di raccontare. E inoltre per girare non potevo posizionarmi in qualsiasi punto, c’era un patto tra me e lo chef: non dovevo essere d’intralcio, avevo dei paletti su dove potevo stare”. Nel frattempo Silvia racconta degli ospiti che vengono In Galera, tra di loro anche tanti stranieri. “Una volta una coppia di svedesi mi diceva di quanto il loro sistema penitenziario fosse all’avanguardia ma, nonostante ciò, in nessun carcere c’era addirittura un ristorante”. Un modo diverso di fare ristorazione o di “fare carcere”? Secondo Michele, “sicuramente la seconda: di ristoranti ce ne sono tanti, qui invece al centro di tutto c’è l’idea del lavoro inteso come possibilità di rifarsi una vita. Poi non necessariamente tutti, una volta scontata la pena, continuano con la cucina. Uno di loro, ad esempio, ha aperto una ditta di pulizie. Il concetto è riprendere a lavorare o, ancora più a monte, acquisire una cultura lavorativa. La cosa più importante è la volontà di intraprendere un percorso. Ma questo film non è un’agiografia su mia madre, è piuttosto il racconto di vite spezzate che provano a ricomporsi, grazie al valore del lavoro. L’augurio è che questo modello venga replicato, proprio perché l’obiettivo non è parlare di un primato, ma di un esempio che si offre”.
In questo luogo la fiducia e la rinascita passano dal rispetto delle regole. “Da parte di mia madre c’è grande chiarezza, ogni cosa si fa secondo le regole e si instaura un rapporto estremamente professionale”, afferma Michele. Qui si impara cos’è il reinserimento, quello vero, e magari anche come nasce un desiderio, un’ambizione. “È un circolo virtuoso – continua il regista – e il titolo del documentario si rivolge proprio a chi si trova all’esterno del carcere: benvenuti a voi che siete fuori, guardate cosa si può fare in galera. Questo progetto aiuta sicuramente il reinserimento, ma deve essere anche il sentire comune a cambiare”. Qual è il futuro di questo documentario? “Adesso sta girando molto nelle sale, i numeri a volte sono sorprendenti: a Genova c’erano 120 persone nonostante Sanremo. Mi piacerebbe proporlo nelle scuole, dalle medie in su. A quell’età è difficile avere preconcetti sulla vita detentiva. E sarei contento di portarlo sempre di più all’estero, è un tema che tutte le nazioni condividono e devono affrontare”. Ci congediamo mentre nella cucina di In Galera si continua a spadellare e nel documentario un treno passa e ripassa. Quasi a dimostrare che non sempre di possibilità ce n’è solo una e che libertà e dignità, più che due terre confinanti, forse sono due terre di confine. Ah e poi sì, questo è anche il primo ristorante in assoluto dentro un carcere, ma non è questo il punto. Il punto è che, come dice Silvia, “dovete essere belli come il sole quando uscite fuori”.