Del caso di Gemona non sappiamo niente, se non che i vicini sono stupiti, che il quartiere è sotto shock e che un ragazzo di 35 anni è stato ammazzato, fatto a pezzi e ricoperto di calce dentro a un bidone dalla compagna e da sua madre. Loro hanno ammesso le responsabilità e venerdì primo agosto vengono ascoltate dal magistrato Giorgio Milillo per capirci qualcosa in più. “Tutto è da ricostruire”, dice il sostituto Procuratore della Repubblica di Udine Claudia Denelon. La notizia si ferma qui, ma qualche altra informazione trapelata dà qualche indicazione curiosa sulle cause del delitto, almeno prima facie. Lite domestica è un parolone. Alessandro Venier si sarebbe rifiutato di apparecchiare la tavola. Un gesto di rabbia o un rigurgito patriarcale? Sono solo ipotesi che potrebbero spiegare un raptus delle due donne, i cui ruoli nell’omicidio sono ancora da determinare. Chi ha iniziato? È stato solo l’espediente per una condotta casalinga riprovevole? Oppure, magari, una rivolta “controllata”?
Cosa sia un maschicidio è tema controverso. Non solo perché, come non c’è un’emergenza femminicidi, non c’è di certo un’emergenza maschicidi; ma anche perché la definizione non è accettata nel dibattito pubblico, suona pleonastica e futile (e Word mi dà il termine come scorretto). Un omicidio di un uomo in quanto uomo da parte della sua campagna non segue regole determinate dal contesto sociale e dalla calcificazione dei rapporti di potere asimmetrici tra uomo e donna. Mentre un uomo che uccide la compagna in casa lo fa perché è figlio sano del patriarcato, la donna che uccide l’uomo in casa può farlo per motivi molto più aderenti alla realtà: una lite per esempio. Questa teoria è debole. È molto più facile, stando anche alle casistiche fornite dall’Istat, individuare le cause reali sia degli omicidi degli uomini, sia degli omicidi delle donne. Nessuna di queste contempla una specifica qualità patriarcale.Perché i ruoli si ribaltano. E le vittime sono uomini. Non si tratta di costruire una retorica speculare al femminicidio. Non si tratta di mettere in competizione le vittime. Ma solo di guardare la realtà per quella che è: esistono uomini uccisi in casa, uccisi da chi diceva di amarli. E non sono meno vittime. C’è chi propone, anche con una certa provocazione, di introdurre il termine maschicidio. E forse è un passo inevitabile, se vogliamo affrontare davvero il nodo della violenza nella sua interezza, senza lasciare zone d’ombra. I dati ufficiali dicono che le donne vittime di violenza sono molte di più. Ma i casi come quelli di Alessandro e Maurizio, uccisi, il primo smembrato, il secondo soffocato, dimostrano che la violenza non ha un solo volto. Una bambina di sei mesi rimasta orfana, una donna arrestata due anni dopo un omicidio mascherato da malore. E due uomini che non avranno mai giustizia se continueremo a pensare che queste storie siano “eccezioni”.

Ma sfruttiamo questa notizia di cronaca per proporre un esperimento mentale. Uno slogan in voga tra le femministe è questo: “Uomo morto non stupra”. E le sue varianti: “Uomo morto non uccide”. La morte di un uomo può essere definita maschicidio e cioè morte di un uomo in quanto uomo se il movente dell’omicidio è il patriarcato? Poniamo che l’uomo non faccia la spesa, non pulisca casa, scelga di non apparecchiare la tavola. Se questa classe di eventi porta a una lite e all’omicidio dell’uomo, si può dire che il movente fosse la cultura patriarcale dell’uomo e dunque il fatto di essere un uomo. Quello che è avvenuto, se venisse confermata la prima ricostruzione, potrebbe essere considerato un omicidio basato sul genere della vittima?
