Cosa spinge un top manager che si è sempre definito “car enthusiast”, essendo peraltro investito della nomea di “golden boy” dell’automotive per le sue intuizioni, a voltare le spalle al mondo dell’auto per abbracciare quello delle passerelle del lusso? La teoria secondo cui clamorosa uscita di Luca de Meo dai vertici di Renault – direzione Kering, casa madre di Gucci, Saint Laurent e Bottega Veneta – sarebbe solo il salto di un top manager spinto dall’ambizione ben oltre la propria confort zone non regge: potrebbe essere il segnale inequivocabile che l’automotive europea procede oltre i limiti di velocità verso il cul de sac industriale. In pratica, un vicolo cieco senza soluzioni. La coincidenza temporale è illuminante: poche settimane dopo un accorato appello firmato con John Elkann per salvare il futuro dell’industria auto continentale, de Meo decide di abbandonare la barca che affonda. I mercati lo hanno capito al volo: Kering ha festeggiato con un +13 per cento in Borsa, mentre Renault ha visto svanire in poche ore quasi il 9 per cento del suo valore. Se de Meo aveva ancora speranze per il settore, le ha forse definitivamente accantonate per abbracciare un marchio che, seppur colossale dal punto di vista finanziario, non se la passa benissimo. Ma il Green Deal europeo, l’eccessiva ideologizzazione del dibattito sull’abbandono del motore termico e le divisioni tra chi punta alla costruzione di auto accessibili a prezzi contenuti e chi dà la precedenza al premium hanno reso sterile ogni tentativo di mediazione. Né Stellantis, né tantomeno Renault sono riuscite a imprimere la svolta: nel duello contro le tedesche e la burocrazia di Bruxelles, de Meo si è scoperto impotente? Forse, ma il salto nel lusso non è un salto nel vuoto per chi arriva dal mondo dell'automotive. Specie se si è stati alla corte di John Elkann che, secondo quanto scrive Michele Masneri sul Foglio, "non ha mai fatto molto mistero di voler un giorno disfarsi dell’auto diciamo generalista per concentrarsi sui brand di fascia alta (ormai si definisce “Ferrari owner”) e di considerarli non automobili ma appun- to beni di lusso. E magari fonderli un giorno lontanissimo con la Giorgio Armani, operazione di cui si vocifera da anni". Nel frattempo, Elkann ha fatto qualche prova acquisendo, tramite il fondo Exor, una partecipazione del 24 per cento in Louboutin, marchio iconico delle calzature di lusso, o entrando è entrata nel capitale del marchio di alta gamma cinese Shang Xia, fondato da Hermès. E mentre Macron chiede a Renault di fabbricare droni per l’Ucraina – un déjà-vu bellico che de Meo non avrebbe digerito – François-Henri Pinault gli spalanca le porte di Kering con un assegno milionario a doppia cifra e la promessa di libertà d’azione. Come riporta Open, nel 2022, De Meo avrebbe guadagnato in totale 3,2 milioni di euro tra parte fissa e bonus. Nel 2025 lo stipendio sarebbe salito fino a 4,5 milioni, una cifra comunque molto lontana dai 20 milioni staccati da Stellantis per il nuovo ad Antonio Filosa. Gli sforzi di Pinault hanno dunque ripagato: addio auto, addio sogni di rinascita industriale: meglio il lusso, dove forse il declino si può ancora contrastare.

Il paradosso è che de Meo lascia dopo aver compiuto l’ennesimo miracolo manageriale: Renault, grazie alla sua “Renaulution”, è tornata in utile e ha raddoppiato il valore delle azioni. Ma la tempesta che si addensa sull’automotive europeo è più forte persino di un leader capace di reinventare la 500, rilanciare Alpine in F1 e rimettere in carreggiata l’alleanza con Nissan. L’uscita di scena di de Meo certifica non solo la crisi di un’industria, ma anche le colpe di chi quella crisi avrebbe dovuto arginarla: il gruppo Stellantis, con John Elkann al timone, si è perso tra promesse green e strategie di corto respiro, incapace di fare sistema con i partner per dare all’Europa un piano coerente di rinascita del settore. La sfida tra il motore termico, l’elettrico e l’ibrido si è trasformata in una rissa ideologica basata sulla necessità di piantare le rispettive bandiere su affrettate e miopi politiche e mossa da interessi divergenti, in cui i colossi del premium tedesco avrebbero fatto valere il loro peso, dettando l’agenda a Bruxelles. De Meo, fra i pochi manager di che stavano tenendo botta in un’Europa ondivaga tra industria e mercato, ha scelto di sfilarsi. E mentre Kering scommette sul manager che ha saputo dare identità ai marchi, Stellantis resta con un’incognita al vertice e un destino sempre più incerto. Il sospetto è amaro: se l’auto perde i suoi migliori talenti, è perché chi dovrebbe guidarla ha sbagliato strada e si attarda a fare inversione.
