Il nome di Dario Franceschini sembra appartenere al passato, allo stesso passato politico di Matteo Renzi, che lo volle alla guida del ministero della Cultura durante il suo mandato. Ma uno dei volti più importanti del Partito Democratico è tornato, suo malgrado, sui giornali dopo la puntata del 10 dicembre di Report, il programma condotto da Sigfrido Ranucci. Domenica sera, infatti, è andata in un’onda la ricostruzione di un’inchiesta condotta da Lorenzo Vendemiale e Carlo Trecce su un’azienda legata alle tematiche di genere, Obiettivo Cinque, che vedrebbe la deputata Michela Di Biase, la moglie di Franceschini, socia al 25% della società. Tramite l’account X del programma di Ranucci si spiega: “Report ha svelato le attività private di due volti di primo piano del Partito democratico [l'altro è Alessandro Zan, con la società Be Proud, ndr]: da sempre in prima fila per la difesa dei diritti civili, fuori dal Parlamento hanno fatto di questa nobile battaglia politica un business”. Ma l’ex capo del Dicastero della Cultura non è stato nominato solo da Report e, successivamente, dai giornali, bensì anche da Alessandro Baricco, un suo amico. Lo scrittore, infatti, ha deciso di raccontarsi dopo l’uscita del suo ultimo romanzo, Abel: Un western metafisico (Feltrinelli, 2023), a Il Post, in un podcast di due ore – Wild Baricco – su quasi tutto ciò che ha sempre cercato di tenere privato. I suoi gusti letterari, le sue esperienze personali e il suo avvicinamento alla politica, conclusosi in un nulla di fatto. Ad aver corteggiato l’autore sarebbe stato proprio Matteo Renzi al momento di formare la sua squadra di governo nel 2014. Baricco sembrava la persona perfetta per un governo di impronta socialdemocratica dal carattere americano. Chi meglio di uno scrittore per ricoprire il ruolo di ministro della Cultura? “La politica l’avevo vista anche da vicino, sia con Renzi ma anche prima. È un mestiere per cui devi avere una resistenza nervosa pazzesca. L’altra ragione tecnica per cui ho rifiutato è che avrei dovuto vendere la Holden, esattamente in un periodo in cui la stavo ingrandendo. Era interrompere un sogno, un’avventura” racconta lo scrittore a Matteo Caccia. E prosegue con la storia del “grande rifiuto”: “Mi ricordo il modo, perché è stato molto divertente. Lui stava in un albergo fuori Firenze. Io decisi di andare a dirgli no di persona, non per telefono. Da parte sua lui era molto coraggioso, fino ai limiti dell’arroganza. Grande arrogante anche lui, figurati, era una gara. Dico era, perché davvero mi è finita. Sono riuscito a diluirla. Comunque, lì avevamo ancora entrambi il pelo. Quindi ho preso il treno, sono andato a Firenze e sono arrivato in questo albergo. E c’era lui. Ma c’era una fila… Renzi si spiega anche da un punto di vista molto letterario e umano. Cioè, questo era un ragazzo e si è trovato con la coda fuori di persone. Io ero il più miserabile, gli altri erano quelli davvero potenti. Dopo di me è arrivato uno, credo che fosse Bernarbè [ex amministratore delegato Tim, ndr]”.
“Lui era determinatissimo a convincermi. Ci siamo fatti un numero che è piaciuto a tutti e due. Io ho molti brutti ricordi con Matteo, però ho anche due o tre momenti di grande divertimento, di gioia, che non rinnegherò mai. E lì ci siamo fatti un numero degno di noi che per fortuna è rimasto privato fino a oggi. Lui era molto veloce e molto sintetico. Io ho iniziato a parlare, lui mi interrompe e mi dice: ‘Dammi una buona ragione per non farlo’. E io gli dico: ‘Io sono troppo ambizioso per fare il ministro’. E lui mi dice: ‘Fantastico gesto tecnico, chi mettiamo?’”. Una storia che ha i tempi narrativi dei romanzi di Baricco. “Da lui ho imparato una cosa, la sapevo anche prima ma vicino a lui l’ho capita fino in fondo: questo principio a cui devi arrendersi. È più efficace una cosa imprecisa, o ai limiti falsa, ma che suona bene, che una cosa vera o precisa, che suona in modo incomprensibile. È anche brutta, ma ti spiega il mondo. Lui ce l’aveva chiarissima. L’ha applicata con un cinismo e un’esagerazione che in qualche modo poi lo ha fregato. Però è vero. Se tu non riesci a spiegare al cittadino una cosa che tu stai facendo e quella cosa è perfetta, allora non hai fatto niente, perché lui non sarà contento. Fanne un’altra più imprecisa, meno efficace, che non risolve veramente il problema ma che il cittadino capisce, e lui lavorerà con te. Alla fine guarda nel libro mastro qual è il risultato, hai ottenuto di più.”. Quindi era lui il candidato designato per il posto di ministro della Cultura. Posizione da cui lo avrebbero detronizzato, secondo Baricco stesso, in pochissimo tempo. Ma chiusa l’opzione Baricco, qualcuno doveva essere comunque essere scelto e a questo punto sarebbe arrivato il nome di Dario Franceschini: “E da lì ricordo che mi disse: ‘Ma Franceschini? Vorrebbe farlo Franceschini’. Perché lui aveva proprio la passione della politica. E mi dice: ‘Sai, perché lui vuole diventare Presidente della Repubblica. E il ministero della cultura è una bella strada per arrivarci’. Lo dico perché con Franceschini ho anche una bella amicizia, è una persona che sta al mondo in un bel modo. Lo fece lui alla fine. Ma molto meglio così”. E Franceschini, in effetti, ricoprirà quel ruolo anche per i successivi governi Gentiloni, Conte II e Draghi. Che la sua ascesa silente abbia effettivamente come obbiettivo lo scranno della prima carica dello Stato?