Alla prima uscita elettorale di Giorgia Meloni era presente per noi Michele Monina, scrittore, critico musicale, autore televisivo, direttore artistico e tanto altro. Tutto, tranne che un elettore di centrodestra. Eppure, nel bagno di folla di Ancona per la leader di Fratelli d’Italia - favorita nei sondaggi alle elezioni politiche del 25 settembre - proprio uno sguardo non incantato dai proclami odierni ci ha restituito un resoconto spassoso e illuminante su cos’era l’Italia e su cosa è diventata.
Prologo
28 marzo 1994, Ancona, esterno sera
Sono appena stati resi noti i telefonatissimi risultati delle elezioni politiche meglio note come “quelle della discesa in campo di Berlusconi”. Il centro-destra capeggiato dal Cavaliere, in buona compagnia di Gianfranco Fini, a capo di quella Alleanza Nazionale nata sulle ceneri dell’MSI proprio per raccattare i voti di chi, anche volendo, avrebbe avuto difficoltà a votare il partito di Almirante, e Umberto Bossi, ancora impegnato a sparlare dei terroni e quindi forte esclusivamente al nord: il centro destra ha stravinto sul centro sinistra capeggiato da Massimo D’Alema. Per la prima volta la destra, seppur in compagnia di liberali e nordisti, sale al governo. Per la prima volta da che esiste la Repubblica, intendo. Si inaugura nel peggiore dei modi la Seconda Repubblica, figlia di Tangentopoli.
Con un manipolo di amici un giovane me stesso si dirige sotto la sede di quello che fu il partito della fiamma tricolore. Per anni, prima della svolta di Fiuggi, quel medesimo manipolo ha scientificamente preso a sassate proprio l’insegna luminosa con la fiamma, segno di un passato che, sebbene nati in terra rossa di partigiani, si faticava a dimenticare. Una sassata precisa, lì nella piazza davanti alla chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano, una insegna mandata in frantumi, così almeno una volta alla settimana. Siamo una decina e andiamo lì sotto, intenzionati a menare le mani. Nessuno si presenta. Intoniamo l’internazionale, seppur almeno la metà di noi si professi anarchico e sappiamo tutti come è finita in Spagna, parola del nipote di Pietro, il rossonero citato da Hemingway in Per chi suona la campana. Ci piace vincere facile, dirà qualcuno, ai tempi Ancona è ancora una roccaforte della sinistra, in quella sede saranno sì e no presenti una decina di persone, sempre le medesime che sono ancorate all’ex partito fascista per questioni genetiche, figli di fascisti o nipoti di fascisti.
Svolgimento
23 agosto 2022, esterno giorno
Sto scendendo verso Piazza Roma con mia figlia Lucia, ventuno anni. Stiamo andando a sentire e vedere l’apertura della campagna elettorale di Giorgia Meloni, che parte proprio dalla città in cui entrambi, io e mia figlia, siamo nati, e nella quale io non vivo più da venticinque anni, Lucia non ha mai vissuto. Siamo qui in vacanza, e l’occasione è ghiotta per fare un giro sulla giostra e vedere uno spaccato di Italia che altrimenti ci sarebbe precluso. Mentre scendiamo per via Goito, ho lasciato la macchina nella piazza in cui ho a lungo abitato, dedicata non a caso a Errico Malatesta, le racconto proprio di quell’episodio. Aggiungo un serafico, stavolta credo che ci sarà un po’ di gente. Nel mentre, in questi venticinque anni, cioè, è successo, in Ancona come in Italia, quel che è successo, la Terza Repubblica, Salvini, il Movimento 5 Stelle e ora Fratelli di Italia e la Meloni data per sicura vincente alle prossime elezioni. Per dire, nelle mie Marche, da sempre rosse, è al governo tale Acquaroli, uno che quando è stato eletto, con proprio la Meloni a fianco, neanche ha aperto bocca davanti ai microfoni dei giornalisti nazionali, lasciando a lei l’incombenza di festeggiare, più nero del nero, a detta di chi lo conosce (il solo episodio che me lo aveva raccontato, prima di vincere a man bassa, complice una infelice gestione Ceriscioli, quindi PD, una cena commemorativa del fascismo proprio durante l’anniversario di un eccidio nazista, cuore sensibile), non credo sia un caso che la campagna elettorale parta proprio dalla regione a reggenza destrorsa. Arriviamo in piazza. Restiamo senza parole. La piazza è piena. Non metaforicamente. Ma proprio piena letteralmente. Da lato a lato. Per gli anconetani, per quelli non presenti, piena dall’orologio fino al rettorato, di fronte al quale si erge il palco. Palco invisibile, tante sono le bandiere azzurre con in mezzo la fiamma tricolore che sventolano. Resto scioccato. Con me anche Lucia. Entriamo in mezzo alla folla, un po’ per capire, un po’ perché siamo in effetti venuti qui per questo. Inizialmente mi auguro in cuor mio siano tutti di fuori, è noto che la provincia di Ascoli, come parte di quella di Fermo, siano storicamente orientate a destra, ma le parlate che sento, prima che il comizio inizi, sono tutte con accento di qui. Gente che non conosco, sospiro, ma che comunque è qui in buona parte per sostenere la Meloni, non per curiosità o, come inizialmente pensavo di fare io, per intonare qualche canto anarchico.
Faccio una diretta, nella quale specifico che mai come oggi sono felice di non vivere più qui. È un video ingeneroso, perché alla fin fine qui la destra non ha mai vinto, ma direi che il disagio che provo nello stare in mezzo a così tanta gente che è lì per sostenere la Meloni è un’ottima giustificazione. C’è gente che è palesemente esaltata dalla quantità di persone presenti. C’è uno che dice “la prima volta eravamo in quattro, ora siamo quattromila”. Io c’ero la prima volta, quando nel 1994 è arrivato in città Fini, di lì a poco ministro del primo governo Berlusconi, erano davvero quattro gatti, noi lì a fischiarli in numero decisamente maggiore.
La gente sta sostanzialmente qui perché vuole cambiare, e lo slogan scelto per l’occasione in effetti questo dice, “siamo pronti”. Uno, che come me si trova qui evidentemente a scopo provocatorio, dice a voce non troppo alta, “sì, a prendere calci nel culo”, ma si capisce che lo fa perché conta sul rumore di fondo che impedisce ai più di ascoltarlo.
Arriva l’inizio del comizio, anche se qualcuno si è lamentato del troppo ritardo. La paura che la folla se ne vada c’è, dicono, il che in qualche modo tradisce una insicurezza che onestamente fatico a capire. Si rivendica, non saprei dire a nome di chi, perché le bandiere occludono la vista, i grandi successi raggiunti in regione dal governo Acquaroli. Si parla di ricostruzione dopo il terremoto, si parla di valori morali riportati in auge, ma su questo fronte credo sia più difficile fare esempi concreti. Arriva Giorgia, donna, madre, cristiana e via discorrendo. Il boato della piazza mi fa letterarlmente rabbrividire. Non perché non sia abituato a confrontarmi con l’orrore, ma perché non avrei mai pensato, in passato, che un giorno questa piazza sarebbe potuta essere piena di gente che, magari senza neanche aver mai simpatizzato con l’MSI, è oggettivamente convinta che le idee della Meloni siano non solo legittime, ma giuste e condivisibili. La Meloni, e stando al consenso direi che la vede davvero lunga, imposta il suo discorso sulla difesa della vita, contro un non troppo specificato stato di decadenza in cui verserebbero i giovani. A vedere, sono nella metà lontana della piazza, quella ridosso del palco è troppo serrata e piena di sbandieratori, di giovani non ce ne sono tantissimi, ma temo siano tutti sotto il palco, attratti dagli estremi come usa in gioventù, seppur da un estremismo agghiacciante.
Quel che mi colpisce, meno di quanto ai tempi di Fini la medesima cosa mi colpì, è il tono della voce della Meloni, affatto accomodante. È proprio violenta, forte di parlare ai suoi, usa parole violente e un tono aggressivo che raramente le vediamo esibire quando passa nelle tv e nei talk politici. Sciorina tutto il repertorio, tra sicurezza, è il giorno della polemica con Letta per il video dello stupro di Piacenza condiviso, anche qui a fare la vittima per la mancata solidarietà espressa alla vittima e per aver colpevolizzato lei invece che lo stupratore, e devianze, qui non rettifica affatto il tiro, e da quel che si vede buona parte della gente, compresi certi ex punkabbestia locali che riconosco, la vedono come lei. La gente è galvanizzata, come lo era quando la squadra guidata da Guerrini ha conquistato la serie A, una vittoria inaspettata che di colpo si fa reale, partita dopo partita. Sentire la Meloni, e prima di lei Acquaroli, parlare di Modello Marche, intendendo con questo indicare come il futuro governo di destra avrà le medesime modalità di quello al momento alla guida della mia regione natale, quindi sentir parlare di diritti per gli omosessuali, diritti a una morte dignitosa, aborto, come fossero vezzi di una classe politica viziosa e viziata, sintomo di un lassismo sul punto di essere spazzato via, mi mette a disagio, salvo poi, messo velocemente da parte lo spirito campanilismo, lasciare spazio a una desolazione senza pari. E pensare che un tempo alle Marche si guardava come modello economico virtuoso, quel terzo settore studiato da Foa e dagli economisti dell’Università di Ancona oggi sul punto si essere sostituiti dai deliri di gente come Carlo Ciccioli, psichiatra da sempre vessillo della destra anconetana, famoso per le sue esternazioni sessiste e al limite del medievale e in città noto per vicende legate a una questione di proiettili con un appartenente all’estrema sinistra, “errori di gioventù”, sbolognerebbero oggi, in questa fase di revisionismo storico.
Del resto se non è revisionismo indossare costantemente i panni delle vittime, star lì a piagnucolare l’antidemocraticità di chi li bolla come antidemocratici, quelli stessi poi definiti con toni violenti “buonisti”.
Tornando alla piazza, ci sono molti poliziotti, alcuni in tenuta antisommossa, ma di contestazioni non se ne vedono, giusto un paio di cartelloni, invisibili in mezzo a tutte quelle bandiere.
Anzi, a un certo punto sento voci allarmanti, mi hanno riconosciuto. Li sento pronunciare il mio nome, e al momento mi allarmo. Poi mi ricordo di essere nella mia città natale, e li sento dire qualcosa che suona come “sta facendo un video, si vede che è qui per scrivere un articolo o qualcosa del genere”, e capisco che anche loro sono qui più per curiosità che perché parte di questo circo assai poco rassicurante. Chissà in quanti, tra i presenti, i quattromila cui faceva riferimento il tipo che era tra i quattro (gatti, immagino) presente la prima volta, saranno semplici curiosi. A sentire dai boati direi molto pochi. Pochissimi. La pantomima procede su cliché anche piuttosto banali. Si accusano gli altri di buonismo, parlando di stranieri da cacciare o da fermare alla frontiera. Si fa del vittimismo, sottolineando come la sinistra, e Dio solo sa dove sia la sinistra oggi in Italia, tenda sempre a demonizzare chi crede invece nei veri valori. Si lancia un’idea di giovani dediti alla dissoluzione cui tocca in qualche modo dare una raddrizzata, e in questo caso mi viene davvero voglia di cominciare a bere e drogarmi non fosse altro che per andare a flaggare le caselle mancanti delle devianze che per tutto il giorno hanno occupato miliatarmente i social, conscio che quando la destra vincerà sicuramente sarò uno di quelli che praticherà la devianza conclusiva, l’hikikomori. Unica nota divertente, si fa per dire, sentire i miei concittadini virare in dialetto locale le aberrazioni dette dalla Meloni, e prima di lei da Acquaroli, sul palco. Il “pronti” tante volte ripetuto, infatti, diventa qualcosa come, “adè la sinistra se la va a pija ‘ntel culo”, non credo serva una tradizione letterale. Quando si capisce, dall’alzare del tono di voce, di aggressività e anche dall’avvicinarsi di ora di cena, che il comizio sta volgendo al termine, io e Lucia, mia figlia, ci incamminiamo verso la via del ritorno, come spesso mi capita di fare ai concerti, quando all’inizio dei bis me ne vado per non rimanere bloccato nel traffico. Sempre di spettacolo si è trattato, seppur di spettacolo horror.
Poco prima della fine.
Un giorno qualsiasi nella seconda metà degli anni 70, Ancona, esterno giorno
Io e mia madre stiamo passeggiando per Piazza Roma, la stessa che oggi, 23 agosto 2022, è piena di gente entusiasta di sentir Giorgia Meloni parlare di diritti da negare in virtù di non si è ben capito quali valori patri inalienabili. A un certo punto da una via laterale al corso principale arriva un corteo di gente col volto coperto e l’aria vagamente marziale. Cantano una canzone che fa riferimento a un determinato gruppo di persone, che vengono chiamate carogne, e che dovrebbero, urlano convinti, tornare nelle fogne. Chiedo a mia madre di spiegarmi di chi stiano parlando, mia madre, con la inconfondibile montatura a occhi di gatto che caratterizzerà il suo look per tutto quel decennio, in pendant con una pettinatura da maschietto molto simile alla brunetta dei Ricchi e Poveri, con cui condivide anche il nome, la taglierà corta dicendomi che parla di gente che a suo tempo è stata già cacciata nelle fogne, e che da lì non dovrebbe mai uscire, ma lo fa senza entrare troppo nello specifico, da madre di un bambino quale ero ai tempi.
Oggi, quasi quarant’anni dopo, sembra le cose stiano andando diversamente, vien da pensare.
Finale
23 agosto 2022, esterno notte
Sono andato a sentire il comizio del lancio della campagna elettorale di Giorgia Meloni mosso da curiosità, e anche da quella sorta di spirito antropologico che ho conosciuto quando, una vita fa, ho iniziato a leggere i gonzo reportage di Hunter Thompson. A un certo punto, quando in diretta su Instagram ho detto che ai miei tempi a gente come quella presente in piazza la avremmo presa a calci nel culo, forse a voce troppo alta, ho anche pensato, ma è stata questione di attimi, che avrei potuto in effetti fare la fine che fece ai tempi del suo reportage sugli Hell’s Angels proprio l’autore di Paura e delirio a Las Vegas, le ossa spezzate e via, in fondo a un cassonetto, pestato a sangue da chi lo aveva riconosciuto come un intruso. Invece non è successo nulla, tutti troppo distratti a godersi una vittoria non ancora arrivata. Deluso dal constatare come la mia città, nei venticinque anni che ho passato altrove, sia profondamente cambiata, come del resto è cambiata la città dove sono arrivato, passata dall’avere Formentini, Albertini o Moratti come sindaci, a eleggere Pisapia e Sala, non ho potuto far di meglio che ricollegarmi al mio ultimo pezzo scritto per MowMag, e tornare nel ristorante dove ero stato confuso con Bollani, stavolta del tutto intenzionato a abusare della ormai celebrata somiglianza. Eccomi quindi qui, seduto in veranda, un piatto di rigatoni allo stoccafisso davanti al naso. Solo che, governo ladro, fa un freddo boia. Tutto torna, penso, neanche fossi Jon Snow, pensando a tutto quel che ho visto oggi mi viene da chiosare: “Attenti, l’inverno sta arrivando”.