Cosa può succedere è una domanda senza risposta, al momento. Perché si è arrivati a questo punto, al contrario, può aiutare a comprendere la complessità di azioni di politica internazionale che produrranno inevitabilmente reazioni. La crisi russo-ucraina pare procedere spedita verso il baratro, perché il recente riconoscimento delle repubbliche indipendentiste del Donbass da parte russa è senz’altro un punto di svolta. Ne abbiamo parlato con Michele Testoni, professore di Relazioni internazionali presso la IE International University di Madrid.
Professor Testoni, come si è arrivati a questo punto?
Si sostiene che la crisi sia iniziata nel 2014, io evidenzierei un’altra data, quella del summit Nato tenutosi a Bucarest nell’aprile 2008 e nella cui agenda c’era il Map, Membership Action Plan che mirava ad aprire le porte dell’Alleanza a Georgia e Ucraina. Era una proposta americana, eravamo agli sgoccioli dell’amministrazione di George W. Bush e la richiesta venne congelata soprattutto a causa della contrarietà di Germania e Francia. Le radici della crisi vanno ricercate allora e nella successiva ambiguità mostrata sul tema dalle amministrazioni Obama e Trump, quando si è lasciato spesso e volentieri intendere che le porte della Nato fossero aperte e che bisognasse trovare la scusa giusta e il momento giusto per l’ingresso di Kiev nella Nato.
Putin ha sempre motivato le sue azioni con questo rischio, ma pochi giorni fa il cancelliere tedesco Scholz ha sostenuto che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non era e non è in agenda. Dov’è la verità?
Esistono grosso modo due blocchi nella Nato. Uno è formato dai Paesi dell’anglosfera e dell’Europa dell’Est e ritiene che l’Ucraina debba entrare nella Nato per estendere la garanzia di sicurezza in chiave anti-russa; l’altro è il blocco con Germania, Francia, ma anche e più ambiguamente Spagna e Italia che si oppone al progetto. Questo perché l’Ucraina è un Paese esteso, con difficoltà e asimmetrie interne rilevanti. Da un certo punto di vista, il suo ingresso nella Nato è problematico tanto quanto quello della Turchia nell’Unione Europea.
Come si pone l’amministrazione guidata da Biden?
Con Biden sembra essere tornata in auge una logica russofoba, come durante il primo mandato di Obama quando Hillary Clinton era Segretario di Stato. Il summit di Ginevra tra Biden e Putin nel giugno 2021 fu interlocutorio, ma in questa escalation sostanzialmente le parti si accusano reciprocamente di non rispettare gli accordi di Minsk che avrebbero dovuto porre fine al conflitto nel Donbass. Gli Stati Uniti rivendicano per l’Ucraina il diritto a essere uno stato libero, secondo i criteri occidentali, la Russia ribatte sostenendo di essere vittima di una provocazione dal momento che vengono accettate le richieste dell’Ucraina.
Russia e Ucraina, e con essa la Nato, interpretano insomma gli accordi in maniera opposta. Il riconoscimento da parte di Putin delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk è un punto di non ritorno?
Il riconoscimento è ciò che gli inglesi chiamano watershed, uno spartiacque: esiste un prima e un dopo. Ma non si tratta solo del riconoscimento: nel medio periodo le farsesche dichiarazioni di Putin sull’artificialità dell’Ucraina sono forse più gravi e pesanti, perché chiudono tutte le porte. Putin non è un pazzo, è una provocazione fatta al rialzo per costringere l’altra parte ad alzare a sua volta la posta, quasi a voler costringere la Nato ad aprire all’Ucraina per dire che, alla fine, aveva ragione. Un bluff, una escalation controllata per rafforzare sé stesso. Naturalmente è un passo avanti nella crisi: in politica internazionale non ci sono errori, non ci sono colpe, ma azioni che producono reazioni e talvolta si tratta di un meccanismo perverso di interpretazioni agli antipodi.
Sostenere gli indipendentisti non è un rischio nei rapporti internazionali?
Erdogan ha criticato la mossa, pensando probabilmente al Kurdistan, ma in questo caso direi che gli effetti sono minimi. La mossa di Putin è rivolta all’interno o, meglio, a quella popolazione conservatrice, rurale, slava e ortodossa che si sente accerchiata.
A chi parla Putin?
A tanti, ma c’è da capire se la priorità è interna o esterna. Credo che Putin abbia elevato i toni dello scontro per un gioco di pesi e contrappesi interno alla Russia. Putin è l’uomo al comando, ma anche nei regimi non democratici esistono fazioni e gruppi spesso in contraddizione fra loro.
C’è qualcuno che in Russia non valuta positivamente questa mossa?
Ritengo che i gruppi petroliferi ed energetici non vedano lo strappo di Putin di buon occhio. Ma Putin è sostenuto dai gruppi di potere che vengono dal Kgb, quelli legati ai militari siloviki, dal gruppo Wagner e delle forze armate ultraconservatrici.
È anche una questione di confini?
La Russia è il Paese più grande del mondo ma a Ovest e nel Caucaso non ha confini chiari, è soggetta al gioco delle potenze e si sente schiacciata in questi confini. È dai tempi di Pietro il Grande che la Russia non aveva un confine occidentale così vicino a Mosca, la claustrofobia russa si spiega anche così e di fronte all’irrigidimento americano si è alzata la posta per spingere il confine più in là. Storicamente, poi, quello di spostare i confini russo-sovietici sempre più a Ovest risponde a una logica tipica del vecchio establishment russo, fu anche la logica di Stalin a Yalta: più il confine è occidentale, più siamo sicuri. Ma questo discorso oggi è datato: non si può più parlare solo di sfere di influenza, ma l’interdipendenza economica tipica di questa era spiega che c’è altro di cui tenere conto.
Ecco, l’economia. Già si parla di sanzioni. Cosa può rischiare la Russia?
Primo aspetto: l’inverno in Europa non è ancora finito e la dipendenza energetica dalla Russia non è cosa banale. Secondo aspetto: la Russia ha anche altri clienti, la Cina in particolare, e quest’ultima non ha interessi politici nell’area. La Russia è già stata capace di sopravvivere a sanzioni più o meno dure, e anche in modo superiore alle aspettative. Le sanzioni sono sempre un’arma a doppio taglio: chi le impone deve essere preparato, e questo vale in particolare per Germania e Italia.
La guerra è inevitabile?
Continuo a sperare in un colpo di teatro all’ultimo momento, forse è un’utopia.
Ma i russi non vogliono la guerra: vogliono espandere i confini a Ovest, e si tratta di confini militari e verbali, come dimostrano le parole di Putin sull’Ucraina.