Prima la crisi energetica, poi la crisi Russia-Ucraina. Una “combo” che ha fatto volare il prezzo del petrolio (e quindi dei carburanti) e del gas: un disastro, ma non per tutti. C’è chi si salva e anzi ci guadagna parecchio. Per esempio… la Russia: sarà un caso?
Mosca, uno dei principali esportatori di petrolio al mondo, in due anni di salita potrebbe aver avuto entrate per 328 miliardi di dollari, 87 in più rispetto a quelle del 2020.
Peraltro, il rialzo delle quotazioni della materia prima, e di conseguenza il salasso alla pompa del distributore, non sembra destinato a fermarsi: la tensione tra la Russia di Putin e l’Occidente sta proiettando il prezzo verso i 100 dollari al barile e forse anche oltre. Del resto la Russia attualmente esporta circa cinque milioni di barili al giorno di greggio, pari a circa il 60% delle esportazioni totali del Paese. E sulla crisi energetica aleggia anche il pesantissimo fantasma delle ventilate sanzioni contro Putin.
“Eventuali sanzioni rivolte esclusivamente alle esportazioni di greggio (come avvenuto in passato per l’Iran) – argomenta Gianluca Baldini (La Verità) – potrebbero avere un effetto dirompente sui mercati petroliferi. Il vero problema è che i prezzi del petrolio e del gas naturale sono già troppo alti, sia in Europa che oltreoceano. Più volte l’anno scorso il presidente americano Joe Biden ha fatto pressioni sull’Opec perché aumentasse la produzione con lo scopo di alleggerire l’aumento dei costi del carburante. Per questi motivi, proporre sanzioni che abbatterebbero l’offerta di petrolio facendo salire i prezzi potrebbe non essere la soluzione migliore e a Mosca lo sanno bene. Il Vecchio Continente e lo Zio Sam sono quindi di fronte a un bivio: proporre sanzioni petrolifere tanto severe da danneggiare la Russia causando anche problemi in patria o imporre multe più lievi, ma senza un reale effetto antibellico? L’unica certezza è che la Russia conosce bene questo meccanismo e, al momento, si gode i rincari del greggio”.