Quello che oggi pare il giorno della de-escalation, con l’annunciato ritiro da parte della Russia di una parte delle truppe impegnate nelle esercitazioni tattiche in Bielorussia e in Crimea, sino a ventiquattr’ore fa da alcune fonti era segnato come la data del possibile attacco russo. Domani chissà, e mai come questa volta la sintesi giornalistica, un titolo di ieri del New York Times, rende l’idea di una situazione critica e complessa anche sotto l’aspetto strategico: “On Ukraine, U.S. and Russia wage signaling war to avert actual war”, ovvero sull’Ucraina, Stati Uniti e Russia, si dichiarano guerra per scongiurare la guerra.
Le diplomazie discutono, si parla di spiragli, l’invasione e il conflitto sembrano allontanarsi ma la crisi è un elastico fra le dita di Vladimir Putin, è il presidente russo ad esercitare e ad allentare la tensione, e questo è l’unico dato di fatto concreto di una situazione che si protrae ormai da otto anni nei quali nulla è stato risolto e lo spettro attuale di un’aggressione e delle successive conseguenze sullo scacchiere internazionale caratterizza quella che è probabilmente la più rilevante crisi militare tra la Nato e la Russia degli ultimi trent’anni, dai tempi della Guerra Fredda insomma. Mosca ha comunicato appunto il ritiro di parte delle truppe di stanza al confine ucraino, la Nato attende di verificare - serviranno comunque giorni, considerando l’ingente numero di militari coinvolti - e nessuno pare volere davvero il conflitto, ma altrettanto nessuna delle parti sembra abbia intenzione di risolverlo in quella che è una guerra di nervi (lo spostamento dell’ambasciata statunitense da Kiev a Leopoli ha indispettito l’Ucraina) e di propaganda.
Putin in questo senso è stato chiaro: non vuole l’adesione dell’Ucraina alla Nato, la considera una minaccia e lo ha ribadito in primis al cancelliere tedesco Olaf Scholz il quale in precedenza, a Kiev al cospetto del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, aveva sostenuto non trattarsi neppure di un tema in agenda. Ma la Russia vorrebbe anche riconoscere come nazioni indipendenti le repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, nel Donbass in Ucraina, dove secondo Putin la popolazione russofona è vittima di genocidio - un termine che, di suo, è significativamente propagandistico -: la richiesta è giunta al presidente russo dalla Duma, un altro tassello strategico e non esattamente un segnale di distensione diplomatica considerando che un eventuale riconoscimento violerebbe gli accordi di Minsk, il protocollo raggiunto nel settembre 2014, all’apice dello scontro militare nell’Ucraina orientale e che prevede che i territori tornino completamente ucraini.
Nonostante tutto i segnali sono attualmente quelli di un cauto ottimismo, da più parti si segnalano aperture al dialogo ma escalation e de-escalation sono le due facce della stessa medaglia, così come lo sono la minaccia di sanzioni da parte del G7, in caso di invasione russa, e la sponda cercata da Putin nel presidente cinese Xi Jinping, incontrato a Pechino due settimane fa, il quale ha parlato di un “parternariato strategico” con la Russia che ha acquisito “un carattere davvero senza precedenti”. Oggi e domani, 16 e 17 febbraio, si terrà un vertice Nato - nel formato del North Atlantic Council - a Bruxelles, presente anche il ministro della Difesa italiano Guerini, nel quale oltre al dialogo si predisporrà una strategia diplomatica ferma da opporre a Mosca. Più o meno, è tutto in quel titolo del New York Times: dichiarare guerra per scongiurare la guerra.