Abbiamo a suo tempo imparato ad amare Giorgio Faletti. Lo avevamo conosciuto come comico in quel programma a tratti geniale e a tratti trash che rispondeva al nome di Drive In, idea del sempre geniale Antonio Ricci, poi ci eravamo commossi con lui al Festival di Sanremo, scoprendolo anche cantautore capace di toccare corde con una sensibilità che non gli avremmo imputato, lo avevamo via via visto diventare autore di romanzi best sellers e perfetto cattivo nei film al cinema, rarissimo caso di eclettico capace di spaziare in più campi dell’arte, sempre con successo. Poi lo abbiamo pianto, quando una morte prematura ce lo ha portato via, finendo forse un po’ per dimenticarcene, sorte spesso toccata ai geni di casa nostra, paese di smemorati e ingrati che siamo.
Io ogni tanto ci penso, e mi interrogo su come oggi sarebbe stato accolto un personaggio eclettico come lui, dando al termine personaggio una sfumatura diversa da quella che dovrebbe avere, perché in realtà Giorgio Faletti era una persona, un artista, mentre, per dire, era Vito Catozzo a essere un suo personaggio, relegato al piccolo schermo e agli sketch che inscenava. Pensiamo proprio a quelli. Vito Catozzo, la divisa unta, la pancia prominente che teneva la camicia mezza sbottonata, era una guardia giurata, un metronotte, di origine meridionale, il nome Vito in parte anticipava l’arcano, gretto nei modi di pensare e curioso nel suo modo di esprimersi (“porco il mondo che c’ho sotto i piedi” il suo tormentone, perché i tormentoni comici se li sono inventati loro, mica quelli di Zelig). Aveva una moglie, Derelitta, un metro e quaranta per centoquaranta chili, e un figlio dal dubbio orientamento sessuale, che si augurava, pena una sua reazione violenta, che non diventasse “orecchione”. Passava in Tv la domenica sera, tra un Pistarino intento a fare l’autista di Bus e un Braschi a fare il Paninaro, Gianfranco D’Angelo e Ezio Greggio a presentare, coadiuvati dalla popputa Tinì Cansino, sì, quella che doveva passare l’asciugamano a Vasco in Toffee, e l’Italia si fermava per guardarlo, primo caso di varietà che virava verso un erotismo che poi avrebbe dato vita alle ragazze Cin Cin di Colpo Grosso, l’ingresso della Tv privata aveva portato a un nuovo modo di concepire la televisione, i fatti avrebbero dimostrato non esattamente edificante. Vito Catozzo, è di lui che sto parlando, era in sostanza un personaggio che ironizzava su un metronotte meridionale gretto e omofobo, oltre che sessista e capace di un body shaming acclarato. Qualcosa che oggi, credo, sarebbe impossibile, forse addirittura impensabile. Certo, Vito Catozzo era un personaggio, quindi noi ridevamo del suo essere gretto, sessista, omofobo e anche dedito al body shaming, ma resta che ridevamo di lui e anche un po’ con lui, e nel ridere di lui eravamo portati, quindi, a ridere di un meridionale gretto e di un metronotte, quindi eravamo naturalmente portati a praticare qualcosa che potrebbe suonare come razzismo e classismo. In realtà ridevamo e basta, usava così, perché distinguevamo tra contesto e realtà, perché forse neanche ci ponevamo il problema, anche se era chiaro a tutti che Vito Catozzo non esisteva, e perché in fondo eravamo abituati da sempre a ridere dei tic e dei difetti dei nostri compatrioti, quindi anche nostri, dalla commedia all’italiana via via fino a Fantozzi, tra tragedia e farsa.
Oggi viviamo in epoca di grande sensibilità, o forse di permalosità portata agli estremi, a vederla in maniera diversa, attitudine diversa che porta a una maggiore attenzione verso tutte le persone più fragili e discriminate, attuando una difesa preventiva che cancella ogni possibile occasione di disagio. Al punto che anche provare a rovesciare certi comportamenti, stigmatizzandoli, diventa impossibile, pena l’essere fraintesi o comunque venir additati come qualcuno che non ha a cuore dette sensibilità, evidenziare gli stereotipi, le maschere sono sempre partite da lì, diventa sport pericolosissimo, tipo quelli che saltano dai palazzi senza protezione. Tutto questo, per mezzo del politicamente corretto, sta portando verso un’esasperazione di una forma di censura o autocensura che, valesse davvero retroattivamente, sarebbe capace di cancellare buona parte della nostra cultura pop. Non parlo solo di tv o cinema, ma di letteratura e cinema, oltre che più in generale di pensiero dominante. Certo, capire che si dovrebbe avere a cuore le minoranze in sofferenza, concentrando le proprie mire su chi è in posizione di dominio, è ormai stato assimilato anche ai livelli basic, direi, così come dare per buono che se una qualche affermazione, sia di finzione o meno, ferisce qualcuno, forse sarebbe il caso di rivedere la cosa, o almeno rifletterci su. Solo che la situazione ha preso una china, in questa epoca altamente polarizzata e fatta solo di estremi, bianchi e neri, con una sorta di inasprimento delle singole posizioni, sempre più radicali. Al punto che il dover star sempre costantemente lì a puntualizzare, sottotitolare, accompagnare con disegnini, ci sta onestamente portando verso una specie di resa incondizionata, piuttosto che affrontare un tribunale del popolo spesso sprovvisto degli attrezzi per decodificare un discorso, anche un discorso non eccessivamente complesso, meglio tacere, la giustizia sommaria che specialmente sui social porta a pubbliche esecuzioni ogni due per tre ha già incancrenito qualsiasi tentativo di provare a far intravedere una complessità presente in natura, e a dirla tutta a convincere i ciucci spesso si finisce solo per perdere, dopo aver perso tempo ed essere sconfinati nello sconforto più paludoso e profondo.
Immedesimarsi in personaggi piccoli piccoli, parlo di morale e a volte anche umanità, simpatizzando con loro, certo, la satira deve indurre a mettere in crisi coloro a cui si rivolge, sottolineare le storture condivise, ma al tempo stesso lasciando aperta una finestra verso una riflessione su certe piccolezze, il ridere di quelle che ci appaiono mediocrità cui non rispondiamo, salvo poi accorgerci che siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti esattamente quei personaggi, scoprire nervi e lasciare il re lì, nudo e crudo, a questo serve la satira, e smascherare il pensiero dominante di una nazione, certo modo di identificare sessisti e omofobi, seppur lasciando sul campo, uccisi dal fuoco amico, meridionali e guardie giurate, era chiaramente un modo per stigmatizzare un certo pensare, non un colpire terroni e poveri disgraziati, a non capirlo si finirebbe davvero per sbagliare bersaglio, o più semplicemente travisare il tutto.
Oggi tutto questo non può accadere.
Perché ci si ferma già in fase di scrittura, o almeno questo prevede il mainstream, per evitare rotture di coglioni, e per stare nella culla calda dove tutto è ovattato e omologato, sia mai che qualcuno si prenda la briga di indicarci e lanciare su di noi la prima pietra, scatenando l’inferno in terra.
Ovviamente i tempi cambiano, e certe evoluzioni sono da guardare con favore, altrimenti sarebbero involuzioni. Nel senso, ovvio che vivere in una società che combatte con tutta se stessa ogni forma di discriminazione sia qualcosa non solo di sensato, ma da perseguire con ogni nostro singolo gesto, combattere dette discriminazioni, mettere al muro omofobia, sessismo, razzismo, body shaming e qualsiasi altra forma di violenza verbale e comportamentale, non può che spingerci verso un mondo migliore, ma a fianco di questo cammino, onde evitare che il tutto non passi come una semplice imposizione formale, una regola da seguire perché così è stato deciso, sarebbe il caso di portare avanti un discorso sul contesto, alfabetizzare chi si trova in evidente carenza di capacità cognitive. Trovarsi di fronte un testo, scritto o sotto forma orale, e non comprenderlo è una delle piaghe di questa epoca, darla per ormai assodata e passarci sopra una mano di smalto non risolve certo un problema che ovviamente esula da questo discorso, andando a spalmarsi in maniera omogenea su tutto. Della serie, se non proviamo a rieducarci, così dal poter distinguere chi attraverso la satira stigmatizza certi comportamenti e pensieri da chi quei comportamenti e pensieri veicola, come potremo mai pensare di poter vivere in un mondo evoluto, abitato da persone che capiscano, di volta in volta, che avere cura del pianeta non è un gesto nobile, ma normale, che inseguire il proprio benessere a discapito degli altri è un cancro, che appassionarsi troppo di curling è prova di un nostro disagio personale… no, dai, stavo scherzando. Insomma, arrendersi di fronte alla deriva cui siamo un po’ tutti soggetti, senza star lì a improntare strategie difensive o, meglio, ipotizzare un contrattacco, una reazione, una rivoluzione, forse, comunque una forma attiva di resistenza a tutto questo. Già aver così tanto esaltato la parola resilienza, e tutto quello che sotto questo cappello si trova, al punto da renderla praticamente inutilizzabile, come è accaduto in passato alle pennette con la vodka o alla rucola, per intendersi, la dice lunga su come ormai si dà per assodato siamo noi umani. Un tempo vivevamo covando ambizione a resistere a quello che ritenevamo sbagliato, oggi ci sforziamo di curarci le ferite e proseguire, cambiando forma in base ai colpi che il mondo là fuori ci ha inferto, mi piego ma non mi spezzo.
Vada quindi per una maggiore attenzione, sempre rifuggendo le didascalie e a tratti anche pretendendo uno sforzo in chi ci sta di fronte di andare oltre il primo superficiale piano di lettura, ma sempre resistendo a chi vuole far passare come ormai persa la battaglia contro l’alfabetizzazione funzionale, reale ed emotiva, mica siamo tutti metronotte obesi e grezzi che arrivano dal profondo sud.