La firma di Putin sul decreto con il quale la Russia riconosce l’indipendenza dall’Ucraina delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, in diretta televisiva dopo un discorso identitario e propagandistico alla nazione, segna la prima mossa reale capace di accelerare la crisi russo-ucraina verso il conflitto. Il riconoscimento delle repubbliche filorusse, chiesto a Putin dalla Duma e in violazione - almeno secondo l’interpretazione non russa - del protocollo di Minsk, aprirebbe in teoria all’ingresso delle truppe di Mosca in quello che, al di là del riconoscimento, per la politica internazionale è territorio ucraino, al punto che Stati Uniti e Unione Europea si sono già dichiarate pronte a sanzioni.
La mossa di Putin, tuttavia, è del tutto coerente con il racconto portato avanti dalla Russia a partire dal 2014, anno di inizio della crisi. In una situazione fluida nella quale ciò che ieri appariva lo scenario più possibile, oggi non lo è più ma domani chissà, vale la pena riavvolgere il nastro e cercare di interpretare la confusa mole di informazioni giunta nelle ultime settimane. Guido Olimpio, già inviato negli Stati Uniti del Corriere della Sera ed esperto di intelligence, trova proprio in questa e nel suo lavoro una chiave di lettura della crisi e delle strategie recenti. Le strategie delle intelligence aiutano a leggere una complessità nella quale la soluzione non sembra vicina. “Dall’inizio di questa crisi – ci dice Olimpio – i russi hanno manovrato per stabilire quelli che, secondo loro, sono i paletti: hanno portato avanti una narrazione mirata a presentare l’Ucraina quale possibile aggressore in quanto, secondo loro, autore di atti ostili nei confronti delle popolazioni filorusse. Questo racconto è andato avanti per anni e ha consentito di giustificare il concentramento delle truppe in quei territori e l’impegno militare in loro soccorso, addirittura la stessa invasione. La Russia si è posta come potenza assediata per poter reagire. Gli Stati Uniti hanno risposto con ritardo”.
La risposta atlantica, tuttavia, ora almeno in Europa sembra avere convinto l’opinione pubblica.
L’attività di intelligence è stata condotta da tutti i Paesi alleati, dalla Francia alla Svezia, Italia compresa, su tutta quella che potremmo definire la linea del fronte che va dal Nord al Mar Nero. In questo modo è stato documentato il concentramento delle truppe mosse dai russi, incalzando, diffondendo e rilanciando le immagini relative alle intenzioni di invasione russa. La contromossa all’inizio si è rivelata abbastanza efficace per dare l’allarme e convincere l’opinione pubblica, perché ciò che essa pensa, pesa. Poi però c’è stato un problema.
Quale?
Per ben due volte è stata indicata la data di un attacco che poi non si è verificato. Fissare punti precisi è sempre rischioso, è un problema di credibilità.
Sino a pochi giorni fa si parlava di de-escalation, ora Putin ha alzato il tiro. Come si può leggere questa mossa?
La diffusione di tutte queste informazioni da parte dell’intelligence statunitense, che è molto strategica e profonda, l’avere fatto capire all’intera comunità internazionale i rischi, è un modo di indurre a trovare soluzioni alternative al conflitto. Ma in genere in queste crisi, quando si ha di fronte un regime, c’è sempre la necessità di non portare la situazione a un punto di stallo: chi ha il potere tutto nelle sue mani non vuole perdere la faccia, perché la sua forza deriva appunto dal singolo, dall’individuo, dal decisionismo. Qualsiasi sconfitta è una sconfitta personale, non è una sconfitta politica. Questo discorso vale in parte anche per i presidenti americani, ma vale molto di più per i Paesi dove c’è un solo uomo al comando.
Putin, appunto.
Sta scommettendo tantissimo, vuole essere riconosciuto per quello che è, vuole che la Russia sia considerata una superpotenza al pari degli Stati Uniti, vuole che siano riconosciuti i propri interessi e qualsiasi punto debole, qualsiasi esposizione, è una sconfitta personale, anche se poi un conto è essere sconfitto a Londra, a Roma, negli Stati Uniti, altro conto è essere sconfitto a Mosca, perché le conseguenze sono diverse.
Gli Stati Uniti a livello di percezione scontano ancora il prezzo dell’invasione dell’Iraq?
Sull’intelligence americana pesa eccome. Nonostante siano passati quasi vent’anni resta il peccato originale, una pietra della quale è impossibile liberarsi a prescindere da tutte le volte nelle quali, invece, l’intelligence statunitense è stata fondamentale per evitare un conflitto, a partire dalla crisi missilistica del 1962.
La guerra di intelligence porterà poi al conflitto? C’è il rischio che alcuni segnali vengano interpretati erroneamente?
Attenderei: è presto per dirlo e non voglio avventurarmi su terreni che non sto battendo in prima persona. L’intelligence è uno strumento, una componente, poi tocca al potere politico fare una sintesi. Il pericolo è quando l’intelligence viene piegata alle esigenze politiche. In questo senso la controinformazione è una parte della battaglia, che vale per tutte le crisi internazionali: la percezione, oggi, conta quasi più della verità.