Nel corso dell’udienza che si è svolta lo scorso venerdì a Milano, Alessia Pifferi ha reso spontanee dichiarazioni nel vano tentativo di sottrarsi alla pena dell’ergastolo chiesta al pubblico ministero Giuseppe De Tommasi. Ancora una volta, però, ha tentato di manipolare la Corte e chi dovrà giudicarla. L’unica sindrome di cui è affetta Alessia Pifferi è quella di Calimero. Come il pulcino nero, la donna nel rendere spontanee dichiarazioni, ha cercato ancora una volta di relegare le sue responsabilità a terzi. Dando la colpa al fatto di non essere a conoscenza del suo presunto deficit perché se ne fosse stata consapevole, a suo dire, si sarebbe fatta curare. Poi, sempre cavalcando l’onda del vittimismo, e tra parentesi di patologico c’è solamente questo, ha raccontato di un presunto abuso sessuale che avrebbe subito all’età di dieci anni e dell’ambiente disfunzionale in cui è cresciuta. Già, perché ha raccontato anche delle presunte violenze fisiche che sua madre avrebbe subito per mano del padre. La verità è che la Pifferi ha voluto mettersi ancora una volta al centro della scena. Rivendicando il ruolo della protagonista. Anziché spendere qualche parola di disperazione per la figlia Diana ha cercato di appigliarsi al passato per volersela prendere con il suo destino cinico e baro. Lei, quindi, proprio come Calimero. Piccola sola ed indifesa proprio tale e quale al celebre personaggio. “E che maniere! Qui fanno sempre così perché loro sono grandi ed io sono piccolo e nero. È un’ingiustizia, però”. Convinta, dunque, che tutto quel che accade di negativo nella sua vita dipenda dagli altri e dal mondo esterno. Un modo per non assumersi le sue responsabilità.
Un lamento continuo, proprio come contempla la sindrome, confermato dal suo non verbale. Quando si rivolge agli italiani, dicendo di non aver ucciso Diana e di non volerlo fare, si verifica una eclatante fuga di informazioni dal suo volto. Che, per definizione, è la parte maggiormente coinvolta nel tentativo di mascherare l’inganno. Mentre dice di non aver ucciso sua figlia, dopo aver tenuto un comportamento impostato e coerente, scuotendo la testa con le sue affermazioni, finisce con l’annuire. Finendo con l’essere tradita dalle sue vere emozioni. E capita anche quando alza la spalla. Difatti afferma con il corpo di non credere a ciò che dice con le parole. Ma non è finita. Mentre parla chiude gli occhi e sbatte le palpebre. Un chiaro meccanismo di autodifesa, oltre ad essere uno dei segni inequivocabili di menzogna. Un’ulteriore incongruenza si registra quando asserisce di non aver ucciso Diana. In questa occasione, mentre inizialmente è impostata, gira la testa coerentemente a quel che sta dicendo. Ma, poi, c’è una fuga di informazioni e finisce con l’annuire con il capo. Tradita evidentemente dalle sue emozioni. Il non verbale della Pifferi diventa decisamente teatrale quando parla del ruolo della sorella nella sua vita. Alessia esprime anzitutto rabbia spingendo il mento verso l’alto. E poi costruisce le sue emozioni. Lo fa rompendo il contatto visivo, indietreggiando con il busto e ritirando la testa. Simula il dolore e ciò non (solo) perché la sua gestualità anticipa le parole. Ma anche perché le espressioni facciali di dolore durano pochi secondi. E le sue si sono protratte per un periodo di tempo più lungo. Infine, poco prima di affermare che la sorella Viviana non era andata al compleanno della piccola, esibisce un sorriso falso, noto come il sorriso di Duchenne. Un sorriso che si verifica quando i muscoli delle guance verso i muscoli degli occhi. Mentre invece, quando un sorriso è sincero, compaiono intorno agli occhi le cosiddette zampe di gallina. In buona sostanza, con le dichiarazioni rese in aula venerdì ha firmato il suo ergastolo. Come quello a cui ha condannato sua figlia. Con la sola differenza che in galera a lei verrà dato cibo ed acqua. Quel che lei e solamente lei ha negato a sua figlia Diana.