L’Iran funesta di questi giorni produce cortocircuiti mediatici pazzeschi. Su un account X (ex Twitter) che inizialmente è stato identificato come quello di Hassan Nasrallah (il capo di Hezbollah, il partito e organizzazione paramilitare islamista sciita e antisionista, battente bandiera libanese e in attività fin dal 1982 nel sud del Libano) - anche se poi è emerso che potrebbe essere un fake (ma la propadanga e il "furto" rimangono in ogni caso) - sono state postate un’immagine e una frase, la cui combinazione è più disturbante di un triplo trick alla Playstation, per mostrare l'appoggio all’attacco sferrato dall’Iran a colpi di droni e missili contro Israele. La foto ritrae un leone, vagamente in stile Rastafari, che somiglia all'iconografia classica del Corno d'Africa, come spesso la belva è ritratta nelle chiese cristiane di religione copta. Il maestoso felino africano è ritratto con una bandiera dell’Iran che si staglia sul proprio dorso: il predatore sta afferrando con gli artigli la bandiera di Israele, che simboleggia la “preda”. Ma è il copywriting del post a sorprendere, poiché è Made in Italy: “Meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora. Benito Mussolini”. Si legge a chiare lettere, anche se in lingua inglese.
Ma questa non è forse una delle spesso citate “appropriazioni culturali”? Una di quelle nuove e presunte, ma anche presuntuose, forme di “colpa” che vengono spesso citate dai seguaci dell'ideologia woke. E solo nei confronti degli esseri umani, di sesso maschile, colore pallido e caucasico, possibilmente dotati di pene e che abitano in una delle nazioni affacciate sul mondo occidentale. Uno dei nuovi reati che sono stati creati apposta dai “guardiani della morale” in Occidente. Questi, insieme alla “colpevolizzazione secondaria” e alle “denunce”, che in realtà sono solo delle gogne popolari sui social media, riempiono i telefonini di tutto il mondo di opinabili contenuti digitali e di termini di “neolingue” appositamente inventate, sotto il concetto generale di “attivismo”. Il post leonino del capo di Hezbollah somma due distinti distopismi già rappresentati dalla letteratura: Il mondo nuovo, come romanzava nel 1932 Aldous Huxley e Chiamami con il tuo nome, come da titolo del film del 2017 con un Timothée Chalamet in versione gaia. Il risultato del post del partito islamico è a dir poco disagiante. Ricorda quegli errori storici e madornali prodotti dall'AI, che per “inclusività” riesce a creare immagini con cui poi le nuove generazioni si bevono che i soldati nazisti e gli aristocratici europei erano tutti di colore. Un'avvisaglia che ci prospetta un prossimo futuro, forse ipertecnologico, ma di sicuro ricco di ideologia con pochissima storiografia.
In realtà la frase citata non è un'invenzione lessicale del giornalista Benito Mussolini ai tempi in cui divenne dittatore. Ma è molto precedente. Arriva, infatti, dal decennio prima dell'avvento del fascismo in Italia. La frase è parte del repertorio, per lo più anonimo, a cui attingeva il regime fascista per creare i propri miti. Si tratta di un “motto patriottico” e proviene dalla Prima guerra mondiale, nei giorni tragici della disfatta di Caporetto e il patriottismo è condito dalle battaglie sul Piave, imprese in cui gli arditi incursori si lanciavano tra le acque con il coltello tra i denti per sferrare l'attacco al nemico austro-ungarico, al suon della marcetta: “…e il Piave mormorò... non passa lo straniero... zum, zum!”. Il regime del Ventennio prese in prestito il motto patriottico, come altri atti eroici e ulteriori personaggi dei decenni precedenti, così da metterlo al servizio dei propri fini propagandistici. Nel 1928, quasi un decennio dopo la creazione dello slogan, Mussolini pronunciò tale frase in un discorso pubblico e commemorativo in onore del maresciallo Diaz, ovvero proprio “l'eroe di Vittorio Veneto”, che è celebrato in tantissime vie e piazze d'Italia e che il fascismo prese a simbolo di indefesso amor di patria. La frase, durante il regime, era incisa sulle monete italiane, nel conio da venti e da cento lire.
Il precedente: oltre alla realtà storica, che documenta come la frase non sia stata creata da Mussolini, ma da patriotici combattenti italiani in trincea decenni prima, anche un leader occidentale è cascato nella citazione dell'aforismo. Nel 2016 l'attuale ricandidato alla guida degli Stati Uniti, il tycoon Donald Trump, sfoggiò proprio su X, che ai tempi ancora si chiamava Twitter, un medesimo post, con medesima frase. La frase di Mussolini fu infatti ritwittata da Donald Trump sul proprio profilo, presa “in prestito” da tale @ilduce2016 con una foto profilo di Benito Mussolini con il gatto morto di capelli rossicci di Donald Trump in testa. L'ex presidente Usa pensava di fare il simpaticone ma, copiando male lo stile del nostro inarrivabile Silvio Berlusconi, riuscì solo a farsi perculare da tutto il mondo occidentale, nonché a tirarsi dietro alcune accuse per uso indebito di propaganda dittatoriale e fascista, da più o meno le forze politiche di sinistra di tutto il Pianeta. In realtà, come pochi forse hanno notato, la frase dei tempi di Vittorio Veneto, mutuata da Mussolini, citata da Trump e pubblicata ad aprile 2024 dal leader di Hezbollah è in realtà una parafrasi di un'opera letteraria molto più antica e famosa. Nel libro più noto del poeta inglese John Milton, Il paradiso perduto del 1667, che racconta la caduta dai cieli dell'angelo prediletto di Dio, ovvero Lucifero, è presente una frase parecchio simile a quella utilizzata dai combattenti italiani: “Meglio regnare all'Inferno, che servire in Paradiso”. Copiando, propagando e postando la storia si ripete, Ma se nel Novecento è stata una tragedia, nel 2024 ha il sapore della farsa di un post su X. Solo la guerra rimane sempre uguale.