In La lunga notte: la caduta del Duce su Rai 1 si sono dimenticati di un dettaglio: quella non è la storia di uomini coraggiosi che hanno salvato l’Italia destituendo Benito Mussolini. Quella è la storia di uomini che hanno avuto paura di perdere una guerra, una nazione e che per questo hanno deciso di schierarsi contro il loro Duce. Dino Grandi (interpretato da Alessio Boni) sì, avrà avuto anche coraggio a prendere quella decisione di ricercare una maggioranza tra i membri del Gran Consiglio del Fascismo disposti a votare contro Mussolini, ma quello stesso coraggio è solo l’esito della paura. La paura delle squadracce che guidava, del regime che aveva contribuito a creare della sua influenza sulla Camera dei Fasci. La lunga notte parte dall’entrata in guerra dell’Italia: in apertura ci sono le parole pronunciate da Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia. Poi, nel corso delle sei puntate, lo sbarco degli alleati, la rottura con Hitler (a dir poco caricaturale nel suo sketch di pochi minuti), la nascita della resistenza e quella notte, la lunga notte. Il tutto, però, intervallato da relazioni e situazioni che non sono politiche e non riescono a inquadrare gli aspetti rilevanti dei cambiamenti di quegli anni. Sono storie personali, amori, gossip: il ritratto di una nobiltà nera, decadente e un po’ bohemien. Il problema del fascismo non è stato solo la corruzione, come sembra suggerire lo stesso Dino Grandi. “È il momento del coraggio”, dice più volte dopo la “decisione irrevocabile” della sfiducia del Duce. Lui, Benito Mussolini (Duccio Camerini), chissà se volutamente, è quasi ridicolo nelle sue sfuriate, negli accennati svenimenti e nei monologhi “cattivi” e fin troppo gridati. La sua relazione con Claretta Petacci, poi, sembra veramente tirata fuori da una commedia di Hollywood anni Trenta. Martina Stella, che interpreta la parte dell’amante del Duce, non perde occasione per esagerare, sempre e comunque. Chiama persino “Ben” il suo amato: ma come, l’italianissimo che si fa abbreviare il suo italianissimo nome in un americanissimo nomignolo? C’è poi la “buona” Maria Josè del Belgio, interpretata da Aurora Ruffino, che “simpatizza” per l’antifascismo, e il pavido Umberto II (Flavio Parenti), che almeno prova a impedire la discesa dell’Italia nell’abisso seguendo i consigli di sua moglie. Se lei, infatti, pare avere un briciolo di personalità, il padre di lui, Vittorio Emanuele III, inutile era e inutile viene rappresentato.
Il conte Galeazzo Ciano (Marco Foschi), invece, il più decadente dei decadenti, si perde tra donne e sbornie, dimostrando di essere il più consapevole dell’imminente fine. Viene convinto da Grandi, notevole motivatore, a impegnarsi nella missione. Da metà in poi della serie, infatti, i due sono i veri protagonisti del cambiamento. Edda Mussolini, impersonata da Lucrezia Guidone, moglie di Galeazzo, nonostante qualche flirt con un colonnello tedesco, sembra davvero innamorata di suo marito. Ma stiamo parlando della figlia del duce e di un gerarca, o di una coppia da soap opera del dopo pranzo? Il fatto che ciò che salta all’occhio è, prima ancora della storia, l’amore, forse vuol dire che in La lunga notte qualcosa non funziona. Il regista Giacomo Campiotti (regista, tra le altre cose, del successo Braccialetti rossi), si concentra troppo sulla biografia e non sulla funzione delle figure messe in campo in quel contesto. Sia chiaro, per raccontare una storia occorre rendere umani i personaggi: non dovevamo aspettarci un film di condanna, perché altrimenti il risultato sarebbe stato ancora più retorico. Qui, però, c’è perfino un eccesso di umanizzazione. L’amore, il senso dell’onore e uno sbiadito tentativo di resistenza non bastano a rendere giustizia alla rappresentazione dell’ingiustizia del Ventennio. Rimane il gossip, il sotterfugio, il potere per come si manifesta nelle stanze chiusissime dei palazzi. La corruzione non basta. La follia e la disperazione decadente non bastano se non sono al servizio di qualcosa di più del semplice racconto di uomini e donne che “amavano come tutti gli altri”. Luca Barbareschi, tra i produttori della serie, ha detto che “la storia è diventata necessaria per quello accaduto nel nostro Paese, dove finché non ci sarà un racconto pacificante su quanto successo è difficile crescere”. Per questo, quindi, occorreva sbirciare tra le relazioni dei protagonisti. Vero, ma fare solo quello è ugualmente insufficiente. Una storia privata che, invece, era prima di tutto politica.