È morto Andrea Purgatori. Aveva 70 anni, se l’è portato via una malattia fulminante. Ieri hanno mandato in onda l’ultima puntata della stagione 2023 di Atlantide, il programma che ha condotto per 6 anni. Ne La democrazia in America, era il 1835, Alexis de Tocqueville scrisse: “Quando è riconosciuto come negli Stati Uniti il diritto di ogni cittadino a prendere parte al governo della società, ognuno deve essere messo in grado di scegliere tra le varie opinioni dei suoi contemporanei e di valutare i differenti fatti da cui trarre le proprie considerazioni. La sovranità del popolo e la libertà di stampa devono dunque essere ritenute strettamente correlate”. Questa coppia di frasi tanto chiare quando radicali venne citata all’inizio della breve prefazione di Simone Barillari a Sette pezzi d’America. I grandi scandali americani raccontati dai premi Pulitzer (Minimum Fax 2005), in cui si raccoglievano gli articoli delle grandi firme che portarono alla luce, tra i tanti casi, il Watergate, la violenza americana in Vietnam e la presenza di preti pedofili nella Chiesa. Come se queste parole, di uno dei padri del pensiero politico su cui si fondano le cosiddette società libere, potessero essere difese solo dai grandi giornalisti, da coloro cioè che sfidano versioni ufficiali e omissioni ambigue. Andrea Purgatori poteva finire in un libro del genere. Se non fosse stato italiano, se avesse firmato dei pezzi in inglese, ci sarebbe finito. Lo avrebbe meritato anche solo per il suo percorso, quello di tanti – e ormai sempre meno – giornalisti di un’altra generazione, che iniziano con piccoli giornali e approdano nei grandi quotidiani per dare un impulso diverso nel loro campo. Purgatori divenne giornalista nel 1974 e nel ’76, dopo una breve parentesi al Tempo, arrivò al Corriere della Sera. Parlava di inchieste di mafia, scriveva reportage di guerra. Raccontò la cattura di Totò Riina nel ’93 e la guerra del Libano. Eventi complessi.
Rispecchiava a pieno quanto scrisse Tom Wolfe: “Il giornalismo è un mestiere duro, non tanto per i rischi che può comportare, ma perché si dipende sempre da qualcuno. Bisogna stare ad aspettare come un questuante, con il taccuino di appunti o il registratore, che le parole escano dalla bocca dell'intervistato. Si è sempre in una posizione di inferiorità e bisogna adattarsi alle esigenze degli altri”. Sono i giornalisti destinati a diventare maestri, per rigore e serietà sul lavoro, mantenendo quel doppio tra vita (anche pubblica) – magari simpatica e goliardica – e vita professionale; quest’ultima fatta di nervi tesi, ricerca e un certo scetticismo nei confronti del potere. Andrea Purgatori riuscì dove tanti falliscono ogni giorno ma non per questo smettono di essere pagati da testate giornalistiche e televisioni: fare carriera senza smettere di essere giornalista. Senza rinunciare a nulla, magari optando per l’opinionismo spicciolo del commentatore politico senza cultura. O si è giornalisti o intellettuali. Chi crede che il mestiere di giornalista gli vada stretto non è un giornalista. Non si sveglia presto sapendo che non c’è nessun cartellino da timbrare, non rischia i vaffanculo di politici stizziti o di segretarie impigrite sulle sedie di scrivanie al terzo piano. Non ha idea di cosa voglia dire “chiedere la verità” partendo dai fatti. Non la loro verità, che non esiste, è una truffa, perché la verità non è un bene di consumo, mio o tuo, una busta di latte. Lui voleva lo stramaledetto pascolo di mucche da cui attingevano tutti, giornalisti più simili a lattai del Potere, politici omertosi, cittadini anestetizzati. Andrea Purgatori è stato l’eccezione. Eri abituato a vederlo in TV negli ultimi anni e quando un volto diventa tanto familiare ti sembra quasi innocuo. Non era così. Anche come conduttore televisivo restava prima di tutto un cronista e un giornalista di inchieste.
Il caso Ustica
La forza del suo giornalismo poggiava proprio sulla fedeltà al mestiere del cronista, che si differenzia da quello dello storico perché il primo crede sia doveroso giudicare oggi ciò che accade, non domani. Lo scrisse anche a Romano Prodi parlando della strage di Ustica, avvenuta il 27 giugno del 1980, uno dei casi che deve a Purgatori quasi tutto. Quasi, certo, perché dovrebbe esistere una società delle lettere, dei cronisti, che grazie all’impulso di pochi finirà per coprire un mistero, anche se non sempre imboccando la direzione giusta. Lui è stato l’onda che a forza di sbattere ha generato la crepa nel “muro di gomma” della tragedia del volo DC-9 di Itavia, forse abbattuto mentre era in volo sul Tirreno. Altri hanno seguito la scia, ma Purgatori ha scavato più di tutti. A Prodi, si diceva, spiegherà la differenza tra cronista e storico: “Il fatto però è, signor presidente, che l’inchiesta sulla strage di Ustica sta faticosamente agguantando il traguardo di un processo e che, quando una Corte d’Assise arriverà finalmente a giudicare gli eventuali imputati (nel Duemila?), ai morti di quell’aereo esploso per cause tuttora ufficialmente sconosciute se ne saranno verosimilmente aggiunti altri per cause anagrafiche: testimoni, imputati, familiari delle vittime… al punto da rendere quasi superflua una sentenza. A meno che non si consideri questo come altri processi per strage un risarcimento alla memoria, dove alla fine nessuno paga mai, non ci sono colpevoli e per capirci qualcosa non servono più i cronisti ma soltanto gli storici” (Micromega, n. 4/1998). Le sentenze arriveranno dieci anni dopo, in particolare quella che costituirà in fondo una sorta di ammissione di colpa da parte dello Stato italiano. È il 2011 e la condanna emessa dal tribunale di Palermo obbligherà il ministero dei Trasporti e il ministero della Difesa a pagare 100 milioni di euro di risarcimento per le 81 morti dell’incidente, per motivi che dovevano suonare un insulto ai parenti delle vittime, che attendevano da 30 anni la verità. Cossiga ammetterà di aver sempre saputo soltanto dopo 25 anni di silenzio. Circolarono false piste, e anche di questo si tenne conto. La sentenza per il ministero della Difesa recitava così: “L'accoglimento della domanda di risarcimento dei danni per gli ostacoli frapposti dal Ministero della Difesa all'accertamento delle cause del sinistro”. Si stabiliva infatti che “tali condotte omissive (mancata consegna all'autorità giudiziaria della documentazione relativa ai rilevamenti radar dei siti della D.A. interessati dalla rotta del DC9) e attive (avvenuta distruzione della predetta documentazione nonostante concernesse un fatto così grave per il quale erano in corso complesse e discusse indagini della magistratura), hanno in concreto ostacolato l'accertamento delle cause del disastro”.
Ovviamente Purgatori commentò la notizia sul Corriere della Sera. Sarà il suo ultimo articolo per il più importante quotidiano italiano su questa storia. Ne parlerà in modo schematico e senza colore, come chi sa di essere arrivato, almeno in parte, alla verità. La sentenza parlava chiaro. Il volo di linea era stato agganciato da due velivoli militari libici “che ne sfruttarono la scia per nascondersi”; “il DC9 e l’intruso/gli intrusi furono incrociati a vista da un F104 biposto pilotato dai capitani istruttori Mario Naldini e Ivo Nutarelli (entrambi morti nel tragico incidente delle Frecce Tricolori a Ramstein in Germania, poco prima di essere interrogati sulla strage di Ustica dal giudice istruttore Rosario Priore)”; “Che i radar registrarono tracce di caccia diretti verso l’area della strage provenienti dalla base francese di Solenzara in Corsica e da quella italiana di Grazzanise, dove sembra fossero posizionati alcuni caccia della portaerei americana Saratoga, che in quelle ore effettuò manovre sospette al largo di Napoli, prima confermate e poi smentite dalle autorità militari Usa in due rogatorie internazionali”. E da qui le conclusioni alle quali lavorò come giornalista di inchiesta per 31 anni: “Secondo gli elementi a disposizione della Procura di Roma, il DC9 si trovò al centro di uno scontro tra caccia Nato e caccia presumibilmente libici (un Mig23 con la carlinga perforata da colpi di cannoncino precipitò sulla Sila dopo essere stato avvistato da diversi testimoni, mentre veniva inseguito da due caccia nel cielo della Calabria) e venne colpito da un missile o collassò dopo una collisione con uno dei velivoli militari”. Solo le sue parole, vanno citate, come un pezzo di storia della letteratura giornalistica, come una grande vittoria. Quel testo scarno, che avrà come contrappunto un ulteriore paragrafo a promemoria dei tentativi di nascondere la verità: “Lo scenario di una bomba piazzata nella toilette dell’aereo civile, una bomba «salvatutti» che molti ex alti ufficiali dell’Aeronautica cercano improvvidamente di sostenere, è smentito dalle evidenze (l’asse della toilette ed altri reperti della toilette recuperati non mostrano alcuna traccia di esplosivo), dalla sentenza penale della corte che si occupò del reato di depistaggio (non della strage) e dalla logica”.
La sua battaglia è una delle ultime portate avanti in Italia da un giornalista come tale. Gli varrà un film nel 1991, Muro di gomma di Marco Risi, che contribuirà a scrivere, in cui Rocco Ferrante, il suo alter ego, è un giornalista del Corriere che da dieci anni lavora sul caso Ustica. Forse c’è solo un errore. Parlare di muro di gomma invece che di “muro di spugna”. Certo, il muro dell’omertà fa rimbalzare le accuse e i tentativi coraggiosi dei giornalisti come Purgatori che cercano ogni giorno di arrivare alla verità. Ma il superpotere del Potere è più subdolo, è una condanna eterna. È la capacità di assorbire fino a silenziare le voci che lo contrastano. Ucciderle, corromperle, cacciarle. Purgatori non ha vinto solo contro un muro di gomma, ma contro le sabbie mobili della politica.
Il caso Emanuela Orlandi
Poi arriva il caso Orlandi. Qui il giornalismo si scontra con qualcosa di tanto grande quanto la verità: il dolore. Andrea Purgatori sarà uno degli interlocutori più onesti (e apprezzati) per Pietro Orlandi, che infatti lo ricorda in questi giorni sui suoi canali e scrive: “Daje Andrè, quando arriveremo alla verità sarà stato anche grazie a te”. Purgatori seguirà per molto tempo il caso della piccola Emanuela, scomparsa quarant’anni fa a Roma. Ne scriverà proprio per il Corriere della Sera, fin quando, racconta, non venne pubblicato un comunicato a mezzo Ansa del Vaticano. Purgatori sarà anche la voce narrante di Vatican Girl, uno dei documentari Netflix di maggior successo della piattaforma, nonché uno dei motivi del rinnovato interesse per un caso rimasto irrisolto per decenni. La tesi di Purgatori era chiara: la scomparsa di Emanuela Orlandi (e forse un abuso e in seguito l’omicidio) fu un primo momento della storia, che si trasformò presto in ricatto quando vennero diffuse le foto di Emanuela con l’annuncio della scomparsa. Ai tempi credeva fosse la ‘ndrangheta, ricorda, ad aver utilizzato Emanuela, probabilmente da morta, per prendere accordi con il Vaticano dopo la perdita di un’ingente somma di denaro, circa 130/140 miliardi di lire (“Ci si comprava un quartiere di Roma nel 1983 con quei soldi”) che sarebbero finiti “nel crack dello IOR Ambrosiano”. Confermerà questa tesi anche nell’intervista che aveva rilasciato a noi quest’anno.
Anche in quest’occasione Purgatori non ebbe mai paura di scontrarsi con le istituzioni, in questo caso il Vaticano, a cui recriminò sempre la strategia del silenzio (operata a dire il vero da Benedetto XVI anche per motivi di natura teologica; e forse per ingenuo disinteresse) e la scelta tardiva di aprire un’indagine come quella che in questi mesi era stata avviata. In questi anni farà il lavoro del bravo giornalista, non escludendo nulla ma appurando la plausibilità di tutte le piste. Sarà per questo che scarterà l’ipotesi terrorismo legata ad Alì Agça (che aveva di recente intervistato) e che pur ammettendo la plausibilità dell’ipotesi pedofilia, si concentrerà principalmente sull’ipotesi del ricatto. La cosiddetta “pista dei soldi”. È la differenza tra passione, ossessione, e mestiere. Se da un lato molti giornalisti hanno alimentato versioni romanzate, mentre altri cercavano di ridurre all’osso la trama intricata di questa storia, spesso a prescindere da quanto è emerso negli anni, dall’altro Andrea Purgatori si è mosso razionalmente laddove avrebbe potuto alimentare una delle due parti, quella cospirazionista fino all’eccesso o quella cinicamente riduzionista. Ancora una volta dando lezioni di giornalismo, al di sopra delle parti. Tanto che persino i suoi primi articoli sul caso costituiscono una fonte affidabile per fare chiarezza anche sulle notizie di più stringente attualità. È il caso della nomina dell’avvocato Egidio come legale della famiglia Orlandi. Il cortocircuito creatosi in questi giorni a seguito di dichiarazioni da parte del Vaticano giudicate infamanti da Pietro Orlandi, si è accompagnato anche alla tesi secondo cui l’avvocato Egidio, la cui versione dei fatti contrasta con quella della famiglia, sarebbe stato scelto dal SISDE e non dalla famiglia. Per chiarire il punto si è fatto riferimento a un articolo di Purgatori del 28 luglio del 1983, quando all’indomani dell’ingaggio di Egidio proprio lo zio Meneguzzi affermò che la scelta del legale fosse sua: “Lo ritengo più adatto a questo genere di cose del mio legale abituale, l'avvocato Adolfo Gatti”. A dimostrazione che il lavoro giornalistico di qualità diventa una traccia sicura da cui poter ripartire soprattutto in un’epoca fatta di continue uscite e affermazioni, spesso contraddittorie e raramente analizzate in modo organico. Purgatori, in oltre quarant’anni di carriera, è stato l’esempio del grande giornalista d’inchiesta. Forse persino il più grande della storia dell’Italia recente. A lui dobbiamo tutto, più di quanto gli è stato riconosciuto, più di quanto gli riconosceranno d’ora in poi.