Il tentativo di forzare il percorso del corteo organizzato dai centri sociali sabato 20 gennaio a Vicenza a sostegno del popolo di Gaza (nello stesso giorno, dopo qualche ora se n’è snodato un altro, di attivisti palestinesi, Cgil e altre sigle, del tutto pacifico) ha lasciato dietro di sé feriti, tra cui 10 poliziotti, e una scia di polemiche sulla violenza politica e, soprattutto, sull’“antisemitismo” dei contestatori di Israele. Il quotidiano Libero, ad esempio, titolava con la consueta brutalità “Sinistra a caccia di ebrei”. In realtà, obiettivo degli antagonisti del Nordest era, come si legge su Global Project, era il padiglione israeliano della Fiera dell’oro di Vicenza, svoltasi nel weekend, le cui imprese generano introiti che “finanziano direttamente il genocidio in atto a Gaza”. Detto che un padiglione unico dedicato a Israele, nell’edizione fieristica in questione, non esisteva in quanto, come sottolineato al Giornale di Vicenza dall’amministratore delegato della Fiera Corrado Peraboni, a essere presenti erano diversi espositori di provenienza israeliana, i diamanti in effetti rappresentano un settore-chiave per l’economia dello Stato governato da Benjamin Netanyahu. Al di là dell’effetto-boomerang degli scontri, sul piano simbolico e dunque politico, individuare nel comparto diamantifero un bersaglio di protesta un suo fondamento ce l’ha, e con un nome ben preciso: blood diamonds, diamanti insanguinati. Sul suo sito, l’ambasciata italiana d’Israele è molto chiara: “Israele è leader mondiale nella produzione e commercializzazione dei diamanti”. Non solo, ma essendo “responsabile del 40% della levigatura di tutte le misure e forme”, è anche il “principale centro mondiale per la levigatura”, e la Borsa dei Diamanti israeliana è definito come il più grande mercato di diamanti al mondo, tanto che nl 2006, le esportazioni ammontavano a 13 miliardi di dollari. Secondo il Jerusalem Post, nel 2019 il fatturato complessivo ha raggiunto i 28 miliardi.
Ora, mentre nell’ultimo pacchetto di sanzioni europee alla Russia per l’invasione dell’Ucraina (il dodicesimo a dicembre 2023), è stata vinta la resistenza di alcuni Paesi europei, a cominciare dal Belgio che ospita il Diamond District di Aversa, concludendo anche i diamanti nella lista dei prodotti russi vietati al commercio, l’ipotesi di adottare lo stesso metro per le efferate operazioni militari di Israele nella Striscia non è stata neppure presa in considerazione. Finora, nemmeno dall’Onu, che pure si è mossa per chiedere un’inchiesta sui crimini di guerra dell’esercito di Tel Aviv. E sì che i precedenti ci sono: nei primi anni 2000 diverse risoluzioni delle Nazioni Unite colpirono Sierra Leone, Liberia e Angola proibendo ai Paesi membri l’acquisto, diretto e indiretto, di diamanti grezzi estratti in quei teatri di “conflitti volti a minare governi legittimi”. Fu in base a questa definizione, che citava “movimenti ribelli” autofinanziati con lo scambio della preziosa materia prima, che nel 2003 entrò in vigore il Kimberly Process, un protocollo di cui fanno parte i produttori di diamanti. L’iniziativa consiste, in sostanza, in un’autocertificazione di trasparenza che permette al singolo Stato di dichiarare i propri diamanti conflict free, puri e immacolati. Un “sistema di autoregolazione”, come lo chiama l’Onu stessa, che nella pratica garantisce l’impunità ai governi che dovessero macchiarsi di condotte criminali per il diritto internazionale. Per lo Stato di Israele, il mercato di diamanti non è uno fra i tanti: nel 2012, a seguito di un’indagine per una maxi-frode, l’export crollò del 22%, costringendo le autorità a insabbiarla poiché l’industria diamantifera era troppo importante per collassare. Too big too fail, come si dice in gergo. La dipendenza dal settore, per le entrate statali, è ovvia. Ma c’è chi sostiene che anche in via diretta ci siano esempi di contributi alle forze armate e, di conseguenza, all’occupazione e repressione dei territori palestinesi. L’11 ottobre, quattro giorni dopo il massacro compiuto da Hamas, che ha scatenato il contrattacco sterministico sulla popolazione di Gaza, il presidente dell’Israel Diamond Exchange, Boaz Moldawsky, ha voluto rendere pubblico con una nota, quanto fermamente gli operatori che egli rappresenta credano “nell’esercito israeliano, il più forte della regione”, nonché, va da sé, nel proprio Paese, “unito e determinato a vincere contro i nostri fanatici vicini”.
È evidente che il peso economico di Israele, negli scambi internazionali di una fetta così profittevole nel lusso globale come sono i diamanti, costituisce la ragione obiettiva che giustifica il silenzio di pietra sulla caratura etica della sua produzione. Pecunia non olet, a meno di non figurare fra i nemici dell’Occidente, come la Russia (o essere africani, che santi in paradiso, solitamente, non ne hanno). I parametri etici, del resto, vengono usati da sempre in politica come armi di legittimazione, ossia di propaganda. Ma dato che qui è l’etica il piano di discussione, si può supporre che entri in gioco un fattore più specifico, nel caso di Israele. L’accusa di antisemitismo, di cui si accennava all’inizio, funge da etichetta infammante con cui marchiare coloro che osano criticare Israele. È una collaudata tecnica che, usando un vecchio termine per altro improprio, confonde la religione ebraica e tutti i suoi appartenenti con il popolo israeliano o, per essere più esatti, con chi, di volta in volta, governi a Tel Aviv. La paura di essere bollati come antisemiti, insomma, può essere il non detto, il motivo profondo del tabù, anche riguardo lo scintillar di gemme made in Israel. In altre parole, un diamante (israeliano) è per sempre, e deve restarlo - sporco o meno che sia del sangue dei corpi mutilati dei gazawi.