Il delitto di Garlasco, ormai da qualche mese, è tornato al centro del dibattito giudiziario e mediatico italiano dopo anni di apparente chiusura con impetuosità davvero interessante. Una nuova inchiesta, nata quasi incidentalmente nel contesto di un’indagine per corruzione nel comune di Pavia, ha riaperto interrogativi, rimettendo in discussione non solo la verità del caso in questione, ma anche la credibilità e la solidità del nostro sistema giudiziario, già fortemente in crisi di fronte all’opinione pubblica non solo sul funzionamento della macchina investigativa, ma anche sul rapporto tra giustizia, media e politica. Ne abbiamo discusso con Antonio Ingroia, ex magistrato, già sostituto procuratore della Repubblica a Palermo negli anni delle stragi e stretto collaboratore di Paolo Borsellino. Nel corso della sua carriera, Ingroia ha indagato su alcune delle pagine più oscure della recente storia d’Italia ed è stato uno dei protagonisti del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Siamo così passati dal caso Garlasco, alla riforma della Giustizia del ministro Carlo Nordio sino a giungere al caso dell’agendina rossa di Borsellino in relazione al recente caso dell’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra, dove Ingroia ci ha spiegato “a che punto è la notte” sull’inquietante circostanza emersa all’onor delle cronache recentemente.

Ingroia, secondo lei fino a che punto può estendersi questa vicenda all’interno del sistema della magistratura italiana?
Se questi dubbi dovessero ulteriormente consolidarsi, la fiducia degli italiani nella magistratura, che è già molto bassa, potrebbe crollare del tutto. Vicende del genere peggiorano la situazione. Se non si interviene rapidamente su questo fronte non ci sono molte speranze. Non mi sembra, però che vi sia una qualche volontà di intervenire. Non è certo la separazione delle carriere, come vuole Nordio, la soluzione. La vera riforma dovrebbe puntare a incrementare la specializzazione e la professionalità della magistratura, che spesso, specie nelle piccole procure, è affidata a magistrati inesperti. Se poi c’è anche il sospetto di corruzione, l’intero comparto giustizia rischia di essere travolto. E questo non va bene.
A proposito, il giudice della Cassazione Maurizio Fumo, che condannò Stasi nel 2015, è stato molto duro con Nordio, sostenendo che le sue dichiarazioni siano solo delle stupidaggini. Lei cosa ne pensa?
Immagino il giudice della Cassazione avrà avuto le sue ragioni, ma la mia è solo il parere di un esterno alla vicenda. Ho sentito anche interviste di giudici di merito che avevano assolto Stasi e che la pensano in modo diverso. Però, quando c’è una doppia conforme di merito di assoluzione, fatico a credere che la Cassazione possa ribaltarla. Forse bisogna pensare a una limitazione del giudizio in Cassazione. In una doppia conforme di assoluzione, secondo me, la Cassazione non dovrebbe poter intervenire. È un principio garantista di massima. Diverso è il caso di doppia condanna.
Un altro personaggio di spicco che critica molto Nordio, non tanto sul caso Garlasco ma sulla riforma della giustizia, è Nicola Gratteri.
Fermo restando che Gratteri si occupa di un settore molto delicato come la mafia, dove serve anche un lavoro di formazione e didattica dell’opinione pubblica, credo che si tratti di due piani diversi. Gratteri è un magistrato in servizio che, se ho capito bene, è diventato una sorta di conduttore televisivo. Forse siamo andati un po’ troppo oltre? Ricordo Giovanni Falcone, che era editorialista su La Stampa, ma era già al Ministero, non più un magistrato in attività. Affidare la conduzione di un programma televisivo a un magistrato in servizio mi sembra eccessivo.

Lei che è stato accanto a Paolo Borsellino durante il suo passato da sostituto procuratore a Palermo, cosa pensa delle recenti notizie sulla perquisizione dell’ex procuratore di Caltanissetta Tinebra? Si troverà mai l’agenda rossa di Borsellino?
Anzitutto credo la procura di Caltanissetta stia facendo un buon lavoro, anche se, certo, un po’ tardivo. Purtroppo si sta indagando nei confronti di persone che ormai non ci sono più, decedute. Tinebra stesso che era a capo della procura che oggi indaga sul caso, oppure personaggi come La Barbera, andavano indagati prima, fin tanto che erano in vita e potevano raccontarci la verità. Ciò non toglie che bene si stia lavorando al riguardo. Che la famosa borsa contenente l’agenda possa essere passata per le mani di La Barbera, è certo. La Barbera ha lasciato tracce in una singolare relazione di servizio, scoperta solo ora, in cui diceva di averla consegnata a Tinebra. Caltanissetta sta lavorando bene, ma sono cose che, se fatte vent’anni fa, avrebbero potuto portare ad altri esiti. Oggi, 33 anni dopo, è troppo tardi. Sono convinto che l’agenda rossa non sia stata distrutta, ma sia ancora usata come strumento di ricatto.
Non è che l’inchiesta si sia riaperta proprio perché personaggi come Tinebra non ci sono più?
Credo ci sia stato un eccesso di cautela in passato. Ora i freni sono caduti, perché è più facile gettare la croce su chi non può più difendersi.
E secondo lei chi potrebbe aver rimosso questi “freni”?
So per certo che queste indagini, per tanti anni, sono state ostacolate da certi uomini con cui ho avuto a che fare. Io ero a Palermo quando Tinebra era procuratore a Caltanissetta. Ero molto critico verso il suo operato. Ricordo anche delle polemiche pubbliche a distanza tra me e lui quando feci una dichiarazione molto severa sul fatto che si stava girando a vuoto nelle indagini. All’epoca non si sospettava ancora l’esistenza di un vero e proprio depistaggio, e soprattutto di tale portata. Ma oggi è evidente che fu un depistaggio di Stato. E un depistaggio di Stato si giustifica solo per coprire responsabilità di Stato, mettiamola così.
Ora che Tinebra non c’è più, quali altre sorprese ci dobbiamo aspettare? Insomma, a che punto è la notte?
Purtroppo si rischia di arrivare a un punto morto. Qualcuno disse tempo fa che ci vorrebbe un "pentito di Stato". Forse eravamo sulla strada giusta, qualche anno fa, con l’indagine sulla trattativa Stato-mafia, ma quell’occasione è stata persa. Oggi è difficile pensare che si possa arrivare alla verità completa. Purtroppo al riguardo non sono ottimista.
A proposito della trattativa, lei è stato uno dei pochi a sentire le intercettazioni tra Napolitano e Mancino. Come si sente a essere custode del contenuto di quelle conversazioni?
Non faccio più il magistrato, ma il dovere di riserbo totale rimane. Posso solo dire che sono sempre stato convinto che quella sia stata un’indagine incompiuta, perché avevamo scoperto un pezzo di verità. L’intervento del Presidente Napolitano, che sollevò il conflitto di attribuzione fu, a mio avviso, un pretesto per bloccare l’inchiesta. I vertici dello Stato non la volevano. Le intercettazioni furono solo il mezzo per fermarla.
Crede che si possa tornare a indagare in quella direzione?
La vedo molto difficile. La sentenza della Cassazione ha chiuso la vicenda processuale, mandando assolti tutti gli imputati, alcuni per prescrizione, altri perché il fatto non sussisteva. Ma la Cassazione ha anche riconosciuto che la trattativa ci fu, e che ci fu una minaccia della mafia verso le istituzioni, anche se, per la Cassazione, non è dimostrato che questa arrivò fino al governo. Comunque, una parte dello Stato fu coinvolta. Ma dopo quella sentenza, è difficile che qualche magistrato voglia riaprire quel fascicolo.
