“Money, money, money, money, money”, Cinque volte, come un mantra da esorcismo al contrario. Justin Bieber, un Cristo stanco sul Golgota della fama terminale vestito come se fosse disegnato da un bambino iperattivo sotto Lsd durante l’ora di religione (con tunica hoodie tie-dye sghembo a una spalla – o con un braccio lasciato fuori per penitenza – avvolto in un sudario fatto di boxer bianchi all’ombelico e short blu con l’elastico sotto le palle, calzini a scacchi biancoverdi e ciabatte-zoccoli color lime), sbrocca. Ma sbrocca bene. Sbrocca come uno che ha pagato il biglietto intero per l’inferno della celebrità e ora, stufo del tour panoramico, vuole risalire a nuoto, risalendo lo scolo fognario della celebrità dalla cloaca fino al cielo. Non sbrocca perché lo provocano, ma perché è oltre, e quando sei oltre, sei sempre già nel mezzo: del Coachella in arrivo, del tuo ego, del tuo abisso. “You don’t care about human beings”, urla ai paparazzi (o a coloro che comunque osano filmarlo con lo smartphone). Non ve ne frega niente degli esseri umani. Verrebbe quasi da commuoversi, se non fosse che a dirlo è uno che, quando tossisce, c’è un algoritmo che gli converte il colpo di tosse in royalty.
È successo a Palm Springs, davanti a un bar, fra clog verdolini e impiccioni con telefonini drizzati come cipressi in un cimitero dell’etica. “That’s all you care about, guys. Money”. Vi importa solo dei soldi, ragazzi. Lo ha detto davvero. Lo ha detto come se avesse scoperto adesso, oggi, nel 2025, che i paparazzi vivono di carne umana. Di carne, di smorfie, di micro-esaurimenti monetizzabili. Che la loro è la forma più pura di economia post-organica: niente fabbrica, niente prodotto, solo l’odore di un crollo. Alla gente interessa solo il denaro. Eureka, Justin! Marx, se fosse un tiktoker lobotomizzato di oggi, sarebbe fiero di te. Il tutto — non dimentichiamolo — avviene nel contesto del Coachella, la Disneyland del cool, la Mecca dell’apparire, dove anche i cactus hanno follower.

Eppure, forse, Bieber ha ragione. Ma nel modo sbagliato. Come un santone tossico che predica sobrietà con un Mojito in mano. L’ex baby prodigio di Baby dalla voce da castrato celestiale implode in un rant che, se non fosse triste, sarebbe epico. Un’invettiva lirica e disperata contro il vitello d’oro che da decenni pascola nel suo stesso portafogli. Un meme istantaneo ed eterno (finché dura).
Perché sì, caro Justin, è vero che tutto ruota attorno al denaro. Ma tu, fratello, sei il denaro. Sei un biglietto da cento con i tatuaggi, una moneta vivente col volto ancora adolescenziale e la psiche segnata da troppi backstage e troppo poco sonno. E noi? Siamo il mercato. Che ti compra, ti consuma e poi ti vomita addosso un altro click.
Il video è un compendio perfetto della contemporaneità: un miliardario disperato grida ai poveracci che mendicano pezzi di lui che i poveracci sono avidi. Un profeta rovesciato nel deserto californiano che lancia anatemi tra un costosissimo frappuccino con gli amici e l’altro.
"No! Non è un buongiorno! Già lo sai. Perché siete qui?", sibila Justin, più profeta disidratato che popstar. I paparazzi lo salutano, e lui risponde come un Gesù di TikTok, con la verità che nessuno gli chiede. "Volete solo i soldi", dice, e lo dice come si direbbe "Tu mi tradirai prima che il gallo canti", con la felpa infilata a cazzo che gli rovina la postura e le pubbliche relazioni al posto della croce.
E poi ecco il gesto con le dita che resta impresso, l’universale "pay me", fuori il cash. Tipo uno sciamano con calzature da giardiniere psichedelico che evoca lo spirito di Wall Street per farlo dissolvere. Come se fosse appena sceso un San Francesco impasticcato a evangelizzare l’ingiustizia ontologica dell’economia dell’immagine, proprio mentre si dirige a chillare con i suoi amici influencer.
Ora: la domanda è legittima. Ma il pulpito? Se un milionario – uno di quelli che ti venderebbero il suono del proprio rutto in Nft – accusa degli spiantati di essere ossessionati dai soldi, forse è il caso di aprire un libro di sociologia. O di teatro. Abbiamo un problema: etico, comico, filosofico. È come se Jeff Bezos si lanciasse in una crociata contro il capitalismo mentre si compra un mare per far passare il proprio veliero. È come se Gwyneth Paltrow scrivesse una lettera aperta contro la pseudoscienza mentre vende candele spacciandole per profumate al profumo della sua vagina (lei la cosa delle candele l'ha fatta davvero).

Ma fermiamoci. Perché dietro il ridicolo c’è il tragico, e dietro il tragico, la materia nuda.
Bieber ha 31 anni. L’età in cui molti iniziano a capire che la fama è un veleno a rilascio lento ma non lentissimo. Da mesi lo si vede trascinarsi tra eventi, post criptici, movimenti oculari da pesce fuor d’acqua, vestiti come scenografie psicotiche di uno show che non va più in onda da tempo. Lo scorso mese ha ammesso su Instagram: «Ho problemi di rabbia, ma voglio crescere e non reagire così tanto», accompagnato da un’emoji con la mano in faccia. E intanto pubblica foto sue da ragazzino, la sua testa avvolta in un turbante di origine e motivazione imprecisata, container navali e la miniatura di suo figlio Jack Blues (sì, si chiama così, come un cocktail al napalm in un night club, o come un haiku distopico: Jack come una spina da infilare nella presa elettrica della vita, Blues come il sentimento dell’uomo in esilio permanente da sé stesso. O da suo padre).
Cosa ci dice tutto questo? Che forse – forse – ha ragione lui, appunto. L’attacco ai paparazzi, per quanto isterico-pur-in-assenza-di-utero, non è privo di verità. È l’urlo di un uomo che ha conosciuto Dio sotto forma di dischi di platino e figa, e lo ha visto svanire nel riflesso oleoso del suo stesso successo. È il tentativo disperato di dissociarsi dal sistema che l’ha creato, nutrito, spolpato e ora lo rigurgita in una caffetteria, vestito da spaventapasseri del capitalismo affettivo (mentre ora la moglie Hailey sembra reggere il gioco matrimoniale con la stessa grazia di una hostess durante una turbolenza interminabile. “Cerca di gestire,” dicono le fonti. Certo. Come si gestisce un uragano con un ombrello bucato).
Perché è vero che i paparazzi vivono vendendo scatti come macellai dell’intimità altrui. Ed è vero che siamo tutti complici in questo banchetto cannibale dove i click valgono più della carne viva. Ma è anche vero che Justin Bieber non è un profugo della visibilità: è il suo figlio più fotogenico e deformato. È cresciuto in diretta, ha dato il primo bacio su TikTok prima ancora che TikTok esistesse, ha fatto rehab in mondovisione, e ora pretende un congedo spirituale senza condizioni.

E allora? Allora l’invettiva di Bieber è giusta e grottesca. È il grido confuso di un privilegiato che sente di non avere più una voce ma solo un'eco. Uno che odia i riflettori ma ci scopa e ci caga e ci vive e ci muore sotto. Uno che denuncia il culto del denaro mentre ne è l’idolo più tatuato. Uno che vomita verità mentre mastica contraddizioni.
È un Mishima del pop che prova a fare il suicidio del samurai vestito Supreme con un selfie stick. È Dorian Gray che lacera il proprio ritratto e poi si lamenta con chi gli ha regalato tutti i quadri del mondo.
E quindi il colpo finale: “Get outta here, bro”. Che non è solo un vattene, è un non mi toccare la carne, bro, ché sto evaporando. Lo dice mentre copre il telefono di uno dei presenti – gesto paterno, fraterno, esorcistico, oltre che probabilmente a pochi centimetri dal reato minore – come se volesse proteggersi proteggendo il puntatore di iPhone dal suo peccato infernale che proietta tra le fiamme anche il puntato.
Ma davvero a nessuno frega niente degli esseri umani? Davvero siamo questa colata di slime digitale pronta a succhiare ogni scintilla di anima rimasta, se mai esistita? Forse sì. O forse è solo una brutta giornata di sole nel cervello di un ragazzo cresciuto in una gabbia dorata, in diretta, senza magari aver mai capito se fosse davvero lui a cantare o il mondo a imporgli la voce.
Ma se provassimo – per un secondo solo – a prenderlo sul serio? Se, invece di riderci su, lo ascoltassimo come si ascolta l’ubriaco che dice la verità nella festa sbagliata mentre vomita per terra? Se dietro a quel "non vi interessano le persone" ci fosse un’implosione morale che ci riguarda tutti, noi spettatori, noi “gente”, noi ladri di intimità altrui per sport, per abitudine, per fame di storie?
Il paradosso è devastante: Bieber ha ragione, ma siamo portati a non credergli perché lo dice un uomo il cui conto corrente è l’equivalente economico di un Paese baltico. Perché lo dice vestito come un clown epifanico uscito da una fiction distopica per scolaretti maledetti. Perché lo dice dopo una carriera costruita sulla monetizzazione totale della sua immagine, del suo corpo, del suo dolore. Se perfino chi ha tutto arriva a detestare tutto, cosa resta a noi che abbiamo solo il desiderio? Ma proprio per questo, proprio perché arriva da lì, il suo urlo potrebbe meritare più attenzione dei soliti articoli scritti per ridere della crisi di chi è troppo ricco per avere diritto di lamentarsi. Perché, e qui sta la cosa più scomoda, forse è proprio la sua posizione al di sopra degli altri che gli permette di vedere meglio la fogna che gli scorre sotto.
E allora grazie Justin, profeta confuso della nuova era. Sbrocca ancora, sbrocca di più. Mostraci la frattura, la fame, lo schifo, la tenerezza. Ma ricordati anche tu che, nel momento stesso in cui denunci il mercato, lo stai nutrendo. E che ogni tuo “no!” diventa immediatamente un “sì!” per la macchina che ti divora mentre ti riempie.
E ora ci tocca fare i conti con la verità performativa: anche la nostra indignazione (o comprensione) è moneta. Lo è ogni click, ogni commento, ogni condivisione offesa o sarcastica. Lo è il traffico che generiamo parlando del trauma altrui come se fosse una puntata extra di una serie Netflix. Lo è il dolore di Bieber, triturato e restituito a voi, cari lettori, in questa confezione stilistica deluxe.
E quindi, caro Justin, anche se pare tu l’abbia scoperto solo ora che dei soldi non sai più cosa fartene, è vero: tutto è denaro. Anche questo articolo. Speriamo. Perché noi, al contrario di te, ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno anche degli spiccioli.