Un autista, dipendente di Tper, società emiliana di trasporti pubblici, è stato licenziato per frasi discriminatorie rivolte a una collega. L’uomo aveva rivolto alla donna, che aveva partorito da poco due gemelli, un paio di domande offensive, alla presenza dei passeggeri: “Ma come sei uscita incinta? Ma non sei lesbica?” Neanche a dirlo, la donna aveva subito presentato un esposto all’azienda datrice di lavoro che, a sua volta, aveva contestato al lavoratore “un comportamento gravemente lesivo dei principi del Codice etico aziendale e delle regole di civile convivenza” e aveva licenziato in tronco il dipendente per giusta causa. Ma poi i giudici della Corte d’Appello territoriale hanno considerato la sanzione esagerata, per questo ridotto il licenziamento a recesso unilaterale da parte del datore, condannando la Tper a versare all’autista venti mensilità. Tuttavia la Cassazione ha ribaltato la decisione della Corte d'Appello. Secondo gli ermellini, infatti, “la valutazione del giudice di merito nel ricondurre a mero comportamento ‘inurbano’ la condotta del lavoratore non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento”.
I giudici ricordano che il Codice delle Pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. n. 198/2006) considera come “discriminazioni” anche le “molestie”, ossia “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Sottolinea la Corte Suprema che la frase pronunciata dall’autista “attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona” pertanto “l’intrusione in tale sfera” con “modalità di scherno”, dicendo a una collega “come sei incinta tu? non sei lesbica?” in ambiente di lavoro e alla presenza di utenti, non può essere considerata solo “una condotta inurbana” ma è una vera “discriminazione” da sanzionare con il licenziamento. Per questo ha annullato con rinvio il verdetto della Corte d’Appello, che è ora chiamata a riesaminare la sua decisione per valutare “la sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento”.