Quanto a brandelli possiamo ancora afferrare di ciò che un tempo abbiamo chiamato realtà oggi ce lo si disputa sui social. Attribuirsene un recuperato pezzetto (ricordate il finale di “La storia infinita” di Ende?) è residuale testimonianza d’esistenza. La fiaba di Garlasco (crudele come tutte le fiabe) è, lungi dal delitto irrisolto (o risolto a singhiozzo, drammaticamente ripetuto in nuove varianti) di una povera ragazza, una mappa variabile, giorno per giorno riproposta, ogni giorno riscritta, di un territorio devastato, quello delle nostre vite e di quanto (non più) ci accomuna. C’è un luogo originario. Tanti anni fa avvenne un delitto: così principiano religioni e miti. Da quell’atto, sempre diverso nella forma e uguale nella sostanza, sono nate civiltà millenarie. E noi, che viviamo in una civiltà che ha come proprio tempo mitico quello del giorno, o addirittura delle ore, nel ticchettare dei notiziari, in un affastellarsi di miti e leggende bruciate ora per ora, appresso a narrazioni sempre più deliranti e sfiancanti, nell’idea di una ristrutturazione di un caso di “realtà” possiamo trovare refrigerio parziale, se non addirittura un senso o un motivo di vita.

E così, tra guerre novelle o antichissime, tra vortici di novità false o vere (non importa che poi siano sempre le stesse), in una sorta di incantamento della Storia che, come un disco (un vecchio disco di vinile) si incanta, e tutto confonde tra epidemie che tali non sono state o lo sono state oltre misura, tra guerre giuste ma anche espressione di quanto di più ingiusto ci sia, noi… Eccoci di fronte (e ancora, di nuovo) l’episodio esemplare, cristico potremmo dire, ma certo salvifico, di un “eletto” (il Neo di Matrix?), dal cognome quanto mai opportuno a farne un eroe, e forse lo è realmente, a trasmetterci l’ennesima, particolarmente potente questa volta, terra psichica in cui coltivare il sogno di un mondo giusto o, meglio, che sia possibile aggiustare. L’incidente probatorio con cui cinque mesi fa il meritevolmente più che stimato dottor Fabio Napoleone, con il suo staff, ha riaperto la vicenda dell’omicidio di Chiara Poggi, così platealmente surreale nel suo composito iter giudiziario pluridecennale, un vero e proprio film distorto a tutto vantaggio della dimostrazione che troppo, troppo posticcia sia la “realtà” in cui viviamo, appare come un’oasi di senso.

Ecco un nuovo campo di battaglia, altri schieramenti. Da una parte quelli che dicono che il passato non si tocca, proprio in quanto passato, e dunque, pure, “passato in giudicato” (per quanto dopo cinque gradi di giudizio). Potremmo chiamare questi “conservatori”? Li possiamo chiamare come vogliamo. Le regole non ci sono più, le improvvisiamo, e così il lessico. Dall’altra parte i rivoluzionari, quelli che dicono che “gli altri” (i primi, i cattivi) ci hanno raccontato per anni le peggio nequizie, e poi le hanno difese; e loro, i conservatori di un’onta commessa alla ragione (“ragione” che certo in un’epoca felice, forse prima del 2020, esistette o forse di nuovo ancora prima, ad agosto del 2001, diciamo, o ancora fino al 10 settembre di quell’anno o chissà quando - nel 1989, con l’infinita fine della storia? Forse mai, verrebbe da dire) vanno dunque smascherati. Napoleone lo farà per noi. Notevole il fatto che il primo schieramento abbia la propria parata sul mainstream (la centrale operativa è la trasmissione “Quarto grado”, realista (nel senso di fedele al Re, sia chiaro, e “al di là di ogni ragionevole dubbio”), mentre il secondo su YouTube, con una scompaginata ma eroica o sedicente tale brigata di irriducibili: “Ci stanno nascondendo qualcosa di grosso, ci hanno truccato tutto per i loro biechi interessi, ripetono e forse o meglio ovviamente “hanno ragione” a perpetuare le gesta un’umanità irrimediabilmente cattiva”. Erba, Brembate, Garlasco come luoghi in cui si creano realtà posticce, con il capro espiatorio (o “i capri espiatori”) a perpetuare l’orrore di una realtà che non esiste se non come narrazione dei potenti. A noi rimane solo il prendere atto che i potenti fanno quello che vogliono (e lo fanno, nell’iperbole dell’impunità, “in nome del popolo”) e sperare che l’eroe di turno per l’ennesima volta, e vanamente, ci salvi. Auguri, dottor Fabio Napoleone.
