C’è gente che non arriva a fine mese. Non per modo di dire: il 25 hanno già finito lo stipendio e al 26 comincia il grande sport nazionale, lo slalom tra bollette, mutuo, benzina e spesa al discount. La colazione diventa un atto ascetico: caffè ristretto e biscotti contati, tipo Eucaristia proletaria. Poi ci sono i figli da vestire, i libri di scuola, la rata della lavatrice. E infine l’ansia di quando squilla il telefono: non è un amico, è l’Enel. Eppure, in questo stesso Paese, dove la gente si scanna per due euro di sconto sulla mozzarella, c’è chi parla di Giorgio Armani come se fosse Socrate. “Il grande intellettuale della moda”, “l’architetto dell’eleganza italiana”. Armani non disegna giacche: scolpisce idee. Non taglia tessuti: intaglia concetti. Non usa bottoni: chiude aforismi. La narrativa mainstream lo tratta come un mistico zen della giacca destrutturata, un Montale del prêt-à-porter. Peccato che, mentre Armani viene incoronato come santo patrono dello stile minimal, la Guardia di Finanza lo inchioda per sfruttamento del lavoro. Non è la prima volta: cooperative, terzisti, cinesi stipati in laboratori illegali. Mentre lui riceve lauree honoris causa, i lavoratori ricevono turni di quattordici ore e stipendi da fame. Filosofia sartoriale: il pensiero magro perché non ti puoi permettere il pranzo. Giorgio Armani, "reggioggio" ha inventato il termine "stilista", la meravigliosa perculata per cui cui un sarto è diventato maestro di pensiero. E ne hanno approfittato le sciamannate che vestivano Versace come i parvenu targati Valentino con quella funcia snob da sciacqua lattughe. Non è più vanto di chi ha solo i soldi per distinguersi, ma uno "stile" di vita (dei parvenu e dei nuovi ricchi e dei professori universitari che si inventano cattedre della moda alla moda come delle influencer).

Il cortocircuito è surreale: milioni di italiani non riescono a pagarsi la bolletta del gas, ma gli stessi giornali che raccontano il dramma sociale trovano spazio per esaltare “la visione intellettuale di Armani”. La visione, sì: guardare i poveri cucire per pochi euro mentre vendi il completo a tremila. È un po’ come se Erode fosse celebrato come “il pedagogista dei bambini”. La scena è questa: il lavoratore che esce dalla fabbrica con 850 euro al mese e legge sul giornale che Armani ha ricevuto l’ennesimo premio alla carriera, definito “un maestro di vita”. Vita di chi? Di certo non della signora che cuce bottoni dodici ore al giorno senza contratto. Però Armani, dicono, “parla con i suoi abiti”. Vero: parlano, ma in mandarino e chiedono acqua. Si confonde lo stilista con l’intellettuale. Forse perché in Italia l’intellettuale vero è morto e sepolto. Oggi basta mettere due giacche in passerella, far sfilare una modella con l’aria da santa e pronunciare frasi tipo “l’eleganza è la semplicità” per essere scambiati per Wittgenstein. Nel frattempo, il paese reale – quello che mangia pasta in bianco a metà mese – è piegato dalla retorica.

C’è un’Italia che non arriva a fine mese, e un’Italia che applaude Armani come fosse un profeta. Due mondi paralleli. Nel primo ci si chiede se conviene spegnere lo scaldabagno, nel secondo si discute di tonalità del grigio come metafora dell’esistenza. E intanto il tribunale multa la maison per sfruttamento. Non è filosofia, è partita doppia. La vera tragedia è che questa venerazione mondana viene spacciata come “cultura”. Armani intellettuale, Ferragni benefattrice, Fedez filosofo urbano. È il nuovo canone: non più libri, pensiero critico, dibattito politico. Ora basta un cappotto e una frase aforistica. Gli operai che cuciono? Colpa loro: dovevano laurearsi in estetica del cardigan. L’Italia degli stipendi che evaporano e l’Italia che idolatra Armani sono lo stesso Paese. Ed è per questo che non cambierà mai niente: mentre i poveri sognano la tredicesima, i ricchi sognano l’abito su misura. E tutti, democraticamente, applaudono il sarto illuminato che – per paradosso – non veste i lavoratori che lo rendono miliardario. Forse il problema non è Armani. Il problema siamo noi, che scambiamo un taglio sartoriale per un pensiero politico, un abito per un’opera filosofica. Armani non è un intellettuale, è un imprenditore che sfrutta lavoro. Trattarlo come un Socrate contemporaneo è l’ennesima giacca vuota che indossiamo con orgoglio. Ma la differenza è che la giacca di Armani costa tremila euro. E i pantaloni di chi la cuce, dopo quattordici ore, hanno ancora le tasche vuote. Come se Naomi Klein non avesse mai scritto "No Logo". Prima di parlare della "filosofia di Armani", leggeteli due libri.
