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Giorgio Armani non era solo uno stilista, ma un filosofo: tra pragmatismo lombardo, la competizione con Valentino, Heidegger e un’altra Milano, quella sobria, vera, di tutti noi

  • di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

  • Foto: Ansa

5 settembre 2025

Giorgio Armani non era solo uno stilista, ma un filosofo: tra pragmatismo lombardo, la competizione con Valentino, Heidegger e un’altra Milano, quella sobria, vera, di tutti noi
Giorgio Armani, re di Milano, sì, ma anche filosofo dell’ago, stilista con una visione sobria, elegante, urbana, che ha restituito alla moda il suo contatto con la realtà. Siamo lontani dagli eccessi di Valentino o dallo sperimentalismo fine a se stesso. Tutto ciò che Armani ha fatto ci riguarda, come riguarda l’anima autentica di Milano e le nuove generazioni

Foto: Ansa

di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

Per anni ho insegnato estetica della moda alla IULM di Milano, dove sono stato professore invitato, e Giorgio Armani era il pezzo forte per i miei studenti. Non perché fosse il più glamour o il più chiacchierato, ma perché bisognava scavare per capirlo fino in fondo: il suo ritorno al reale, il rifiuto della moda come fuga onirica. Le sue campagne parlavano chiaro: donne a Linate, tailleur impeccabili e valigie in mano, prese da telefonate urgenti; uomini in camicia coreana, con La Repubblica sotto il braccio, che camminano veloci per Corso Venezia. Era la moda come specchio della vita, non come evasione.

Ero in aula alla IULM, un pomeriggio di ottobre, con la luce che entrava dalle vetrate e il rumore del tram 9 che si infilava nelle pause della lezione. Stavamo smontando il concetto di moda postmoderna, e quando ho tirato fuori Armani, uno studente con un hoodie di Off-White e AirPods mezze cariche mi ha sfidato: “Prof, ma Armani non è solo roba da ricchi boomer? Che c’entra con noi?” Ho sorriso, non per superiorità, ma perché quella era la domanda giusta. Ho aperto il laptop, fatto partire una slideshow con le campagne Armani degli anni ’80 e ’90: donne che sembrano manager pronte a prendere un volo, uomini che potrebbero essere tuoi colleghi in un coworking di Porta Nuova. “Guardate,” ho detto, “Armani non ti vende un sogno, ti dà uno specchio. Non ti chiede di essere altro, ma di essere te stesso, meglio.” La discussione è andata avanti per ore, con gli studenti che passavano dal cinismo al rispetto. Armani non era solo un brand; era un modo di pensare il corpo, il tempo, il mondo. Ma soprattutto la nostra città: Milano. Ora, con la sua morte il 4 settembre 2025, a 91 anni, nella sua Milano, circondato dai suoi cari, come annunciato dal Gruppo Armani, quel pensiero sembra più urgente che mai. Ma cosa abbiamo perso e cosa resta? Armani non era un super sarto; era un filosofo con ago e filo.

Giorgio Armani a Mosca
Giorgio Armani a Mosca Ansa

La notizia della sua morte, comunicata con un sobrio comunicato stampa – “pacificamente, a casa sua, circondato dai suoi cari” – è puro Armani: niente drammi, niente spettacolo. È morto a Milano, dove ha sempre vissuto e lavorato, dirigendo il suo impero fino all’ultimo, e come confermato dal New York Times “l’impero continuerà per mano dei suoi cari”. A 91 anni, Giorgio Armani era ancora al timone, un’icona di disciplina in un mondo che idolatra l’eccesso. Nato a Piacenza nel 1934, ha attraversato il Novecento italiano come un’enciclopedia vivente: da studente di medicina a vetrinista alla Rinascente, fino alla fondazione del suo marchio nel 1975 con Sergio Galeotti. La sua morte arriva in un momento in cui la moda è un campo di battaglia: fast fashion contro sostenibilità, influencer contro artigiani, reale contro virtuale. Armani aveva già previsto tutto, pianificando la successione del suo gruppo con una fondazione per garantire indipendenza, come dichiarato in interviste recenti. Ma il punto non è solo l’impero economico – miliardi di euro, linee che vanno dall’alta moda agli hotel – è la sua visione filosofica che ci lascia orfani. Armani ha usato la moda per pensare il reale, e questo è ciò che dobbiamo afferrare ora.

Parliamo della sua filosofia. Armani non era un designer che inseguiva il trend; era un pensatore che usava il tessuto per rispondere a domande esistenziali. La sua estetica è un realismo radicale: sobria, funzionale, timeless. “Elegance is not about being noticed, it’s about being remembered” ripeteva, e non era solo uno slogan, ma un manifesto. Ha smantellato il tailleur maschile negli anni ’80, togliendo imbottiture e rigidità, creando giacche che si muovevano con il corpo, non contro di esso. Non era moda, era ontologia: l’abito come estensione del sé, non come maschera. La sua palette – beige, grigi, blu notte – veniva dalla sua infanzia post-bellica, un omaggio alla calma in un mondo che urla. “I design for real people,” diceva, e lo dimostrava con campagne che mettevano in scena professionisti, non divi: donne a Linate, uomini con il giornale, simboli di un’eleganza che vive nel mondo, non in una bolla. Come scrive Maria Luisa Frisa in Italian Fashion Now (Marsilio), Armani ha democratizzato il lusso, rendendolo non un privilegio per pochi, ma un modo di essere per molti. Frisa, che ha lavorato con Armani per eventi e progetti, sottolinea come il designer abbia trasformato l’identità italiana in qualcosa di accessibile, quotidiano, senza perdere profondità. Armani ha sfidato le norme di genere con abiti fluidi, unisex, che liberavano il corpo da costrizioni culturali. Fabriano Fabbri, in Sesso arte rock’n’roll: Tra readymade e performance (Atlante), offre un altro angolo di osservazione: Armani trattava il corpo vestito come una performance quotidiana, un ready-made del reale, opposto all’eccesso spettacolare di altri designer. Armani come un artista che usa la moda per criticare il consumismo, pur essendone parte.

La copertina del Time sullo "stile di Giorgio Armani"
La copertina del Time sullo "stile di Giorgio Armani" Ansa

Questo ci porta al contrasto con Valentino. Armani è il reale, Valentino è la favola. Armani è minimalismo, linee pulite, portabilità; Valentino è opulenza, rosso fuoco, pizzi che sembrano usciti da un quadro di Botticelli. Le sfilate di Armani sono sobrie, con modelle che camminano come persone normali, in spazi che potrebbero essere uffici di design. Valentino crea mondi onirici: abiti da principessa, ispirati a miti e fiabe, pensati per un regno ideale. Negli anni ’90, i due si scontrarono pubblicamente: Valentino trovava Armani troppo austero, Armani giudicava le modelle nude di Valentino un eccesso. Filosoficamente, Armani è heideggeriano: il suo focus è sull’essere-nel-mondo, sull’autenticità del Dasein, dove l’abito è uno strumento per vivere, non per scappare. Valentino, invece, è platonico: la moda come accesso a un mondo delle idee, un sogno eterno dove il bello è distaccato dal quotidiano. Armani vestiva Hillary Clinton per il potere reale, Valentino vestiva principesse per il mito. Questo dualismo rappresenta due anime dell’Italia: il pragmatismo lombardo di Armani contro il romanticismo romano di Valentino.

Armani performa il reale, mentre Valentino performa il teatro. In un’epoca di crisi – climatica, economica, culturale – il realismo di Armani sembra più necessario, ma la favola di Valentino offre un rifugio. Insieme, definiscono la tensione della moda italiana: terra e cielo.

I riferimenti filosofici di Armani non sono mai espliciti, ma permeano il suo lavoro. Il suo minimalismo richiama il “less is more” di Mies van der Rohe, ma con un’etica stoica: la disciplina come via per l’eleganza. Per Amore, la sua autobiografia, è un trattato su restraint e lavoro, che ricorda Seneca o Epicuro: il piacere sta nella misura, non nell’eccesso. Heidegger è un’ombra costante: l’abito come rivelazione dell’essere, non come occultamento. Merleau-Ponty, con la sua fenomenologia del corpo, è un altro riferimento implicito: le giacche di Armani, fluide e tattili, enfatizzano la percezione del movimento. Armani ha usato questa sensibilità per creare abiti che liberano il corpo, anticipando discorsi su fluidità e identità; un contesto di arte contemporanea, dove la moda diventa un ready-made che riflette il reale senza idealizzarlo. Armani estendeva questa filosofia al lifestyle: Armani/Casa, gli hotel, i ristoranti, sono un’ecosistema estetico, una weltanschauung nietzschiana dove lo stile è affermazione della vita. Non citava filosofi, ma li incarnava nel tessuto.

Giorgio Armani
Giorgio Armani Ansa

L’Emporio Armani Magazine era il suo megafono culturale. Lanciata negli anni ’80 per la linea Emporio, non era un catalogo, ma un progetto editoriale che mescolava moda, arte, urbanità. Numeri come “Europa 1990” esploravano il nomadismo metropolitano, con foto di modelle in città europee, incarnazioni dell’abitante contemporaneo. Nel 2021, per i 40 anni di Emporio, Armani ha celebrato la rivista con un progetto archivistico, dimostrando la sua rilevanza. Era un modo per raccontare la sua visione: eleganza urbana, accessibile, reale. In un mondo di TikTok e Instagram, quella carta stampata sembra un relitto, ma proprio per questo è preziosa: narrava, non scorreva.

E Milano? Con Armani perde il suo “Re Giorgio”. Ha trasformato la città in capitale della moda, con il suo quartier generale in via Bergognone, l’Armani Hotel, i ristoranti. Il Gruppo Armani genera miliardi, dà lavoro a migliaia, ma il suo impatto va oltre: ha incarnato l’etica milanese del lavoro, della sobrietà, del fare bene. Milano senza Armani rischia di perdere il suo ancoraggio al reale, di scivolare nell’effimero. Ha cambiato come il mondo si veste, dal power dressing di Hollywood alle uniformi quotidiane, mettendo l’Italia al centro. La sua eredità vivrà, ma la città è più sola come ha ben scritto oggi Michele Masneri su “il foglio”. Ma l’estate terribile di Milano, forse è solo un problema generazionale: qualcosa di nuovo, come ci ha insegnato proprio Armani, sorgerà tra le piaghe del reale quotidiano.

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