La grande moda italiana è davvero in crisi? A leggere le ultime notizie, sembrerebbe di sì. I grandi nomi del lusso sono finiti sotto inchiesta perché hanno subappaltato la produzione a manifatture dove regnano il caporalato e il paradigma preindustriale del “cottage system”, con operai che vivono e dormono sul posto di lavoro. Peraltro, la beffa oltre il danno, venendo assunti soltanto se pagavano l'affitto. A volte venendo anche picchiati, come nel caso estremo del cinese che poi ha denunciato. Ne abbiamo parlato con Andrea Camaiora: giornalista, comunicatore di crisi, Ceo del Gruppo di comunicazione strategica The Skill, è considerato uno dei principali esperti a livello italiano ed europeo nella cura delle vicende mediatico giudiziarie e nel reputation management. È una voce fortemente considerata anche nel settore della moda. Davvero la responsabilità è tutta del brand? Il lusso Made in Italy rischia il tracollo? Fin dove arrivano i controlli? Forse, i brand che vivono di immagine, dovrebbero imparare a utilizzare una “comunicazione trasparente ed efficace”.

Da esperto di crisi: qual è lo stato di salute della moda italiana?
«Per favore prima di parlare di ombre, parliamo di luci. Quando si affronta una crisi occorre sempre una visione ampia e complessiva delle questioni. Per Confartigianato, le imprese attive nel 2024 erano circa 80mila, di cui quasi la metà artigiane. Stiamo parlando di un comparto che dà lavoro diretto a mezzo milione di persone che salgono a 1,2 milioni se si pensa all’indotto. L’Italia è primo paese UE per numero di occupati nel settore moda. Ancora: per Cdp, il settore moda italiano vale 5,1% del Pil, con 75 miliardi € di valore aggiunto. Nel 2023 le esportazioni del settore hanno chiuso a oltre 88 miliardi e nel 2024 c’è una conferma di questo dato così importante. Ma non è un settore facile da portare avanti e già questo spiega molto delle recenti polemiche: il 64% delle figure richieste nel settore moda è considerato “difficile da reperire”. Camera della Moda ci dice poi che il 45% delle aziende moda ha investito in materiali sostenibili negli ultimi 5 anni. Ma questo non è un valore di per sé né positivo né negativo perché occorre comprendere cosa intendiamo per materiali sostenibili. Insomma, è un settore articolato, importante ma con le sue fragilità e qui veniamo al punto delicato della questione. La crisi della moda italiana, se assumerà contorni più ampi degli attuali, rischia di travolgere un intero settore, con il suo fatturato, i suoi addetti, il suo indotto. È materia delicata, da maneggiare con cura e affidare ad esperti.»
Il Pm Storari l’ha definito un “sistema tossico”, le aziende appaltano a terzi senza capacità produttiva che subappaltano. C’è un problema di responsabilità, ma a chi spetta?
«Intanto una premessa. Paolo Storari è uno dei magistrati più esperi della procura di Milano. Non è solo definibile ‘tosto’ ma anche strutturato, solido. E che sia lui a condurre questi accertamenti nel mondo della moda è garanzia di tante cose. Venendo alla domanda: lavoro con gli avvocati ma non sono né un giurista né un legale. Mi limito a una considerazione. Da almeno vent’anni a questa parte, le imprese devono considerarsi sempre componente responsabile della società. E questa responsabilità, nella concezione moderna del fare impresa, si estende anche ai propri fornitori. È un qualcosa che però è vero oggi, ma non era vero ieri, quando a un certo punto ciò che contava era preoccuparsi di rispettare individualmente la legge. Inoltre, un conto è riuscire ad avere contezza di ciò che avviene nella propria azienda, un altro capire ciò che avviene a casa degli altri, anche se questi lavorano per te. Insomma, sembra facile ma non lo è.»
Controlli, audit, certificazioni e supervisione: basterebbe questo a risolvere il problema?
«Forse no, ma aiuterebbe molto. Il punto che la moda, rispetto ad altri settori industriali, è un ambito meno avanzato sotto questi punti di vista. Meno organizzato e dotato degli strumenti necessari, sia formali sia sostanziali. Non c’è da stupirsi se vi siano player importanti che, pur agendo nel rispetto della legge, non siano dotati di modelli organizzativi per la prevenzione dei reati che nel nostro ordinamento sono considerati necessari, per legge, da quasi un quarto di secolo!»

Negli opifici del “cottage system” i casi emergono solo quando sono gravi, come nel caso dell’operaio cinese picchiato. Producendo direttamente, cosa cambierebbe? Potrebbe intervenire il sindacato?
«Ritorniamo alla specificità del settore moda, che è industria ma - soprattutto nel settore lusso - mescolata con una buona dose di sartorialità, in cui l’elemento artigianale resta significativo e nel quale la mano dell’uomo conta ancora molto nel processo produttivo. Se si pensa alle polemiche sulla sostituzione degli uomini con le macchine è qualcosa di molto positivo. Ma ci si dimentica che lavorare in fabbrica, anche nel 2025, non è una passeggiata. Ha la sua fatica, richiede impegno fisico e condizioni di lavoro che non sono certo quelle delle professioni intellettuali. In breve, io credo che anche l’azione della procura di Milano abbia un intento fondamentalmente positivo, ovvero rappresenti il pungolo per una modernizzazione e responsabilizzazione generale del settore.»
In cosa sbagliano i brand del lusso?
«Da un lato esiste un aspetto intuitivamente fastidioso se si pensa che certi abusi siano finalizzati alla ricerca di fare margini sempre più alti rispetto a capi che costano diverse migliaia di euro ciascuno. C’è anche una dimensione etica dello ‘scandalo’, evidentemente. È però anche vero che spesso gli ‘scandali’ non sono grandi come appaiono perché esiste una tendenza del sistema dell’informazione a ingigantire i problemi o a diffonderli in modo distorto.»
Un problema di immagine? È sufficiente limitarsi, come ha fatto Loro Piana, a condannare “qualsiasi pratica illegale”?
«È esattamente l’argomento che stavo introducendo. Resto sempre stupito nel vedere come, ai giorni nostri, aziende importanti e strutturate non comprendano il valore di una comunicazione trasparente ed efficace. Serve invece una comunicazione capace di ridimensionare la portata dei problemi e di uscire dalla crisi prima di entrarvi attraverso un ostinato silenzio, magari fondato su un’abitudine alla riservatezza e alla compostezza, ma che in alcuni casi deve essere superato per fornire risposte a un insieme di interlocutori - clienti, stakeholder, concorrenti, giornalisti, opinione pubblica in generale - che fanno parte di quella società di cui anche la stessa impresa è parte. In questa fase chi riuscirà a far percepire una azione proattiva, comunicandola in maniera adeguata, acquisirà un vantaggio competitivo rispetto alle altre aziende. Spiace constatare che anche in questo settore si sia all’anno zero o quasi del crisis management quando invece occorre, insomma, non solo dare risposte, ma darle tempestivamente senza far montare bolle speculative, e ancora farlo seguendo la bussola della verità, del buonsenso e del rispetto. Direi che nel caso di Loro Piana, forse, si sarebbe potuto e dovuto essere più incisivi nella comunicazione. Anche perché esiste un sentiero, nemmeno troppo stretto, tra il comunicare in modo roboante, eccessivo, scomposto e controproducente e il silenzio assoluto o dichiarazioni aride, vuote e inconsistenti.»
Come giustificare il prezzo del prodotto a fronte di costi di produzione minimi?
«In prima battuta penso ai costi di ricerca, a quelli legati alla componente di design, essenziale nel mondo della moda, e alla selezione delle materie prime più adeguate, che è un costo aggiuntivo rispetto alla materia prima stessa, ma non spetta a me illustrare questi aspetti che dovrebbero far emergere non solo le imprese ma anche organizzazioni come Confindustria o Camera della Moda. Ritorniamo un po’ all’inizio della nostra conversazione: il “Sistema Moda” deve raccontarsi, spiegarsi, apririrsi.»
Il fast fashion, a questo punto, rischia di essere più coerente del luxury, in termini di etica e di pricing?
«È un mondo simile ma profondamente diverso per numeri, caratteristiche, destinatari finali, logiche, nel quale comunque certamente la componente industriale prevale nettamente su quella sartoriale e nel quale il costo del singolo capo non rappresenta di per sé un argomento di critica e polemica di partenza. Ma è, appunto, un’altra storia. E non mi sentirei onestamente di incensarla a priori.»

