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Ok, ma ci volevano inchieste e indagini per capire che la moda Made in Italy (e non solo) è un'inculata? Centinaia di euro per una maglietta cinese, sfruttamento e rincari assurdi. Clienti cornuti e contenti?

  • di Jacopo Tona Jacopo Tona

26 luglio 2025

Ok, ma ci volevano inchieste e indagini per capire che la moda Made in Italy (e non solo) è un'inculata? Centinaia di euro per una maglietta cinese, sfruttamento e rincari assurdi. Clienti cornuti e contenti?
Mentre il lusso dilaga tra trapper, borsette e outlet-fantasy, nessuno si chiede: cento euro per una t-shirt, perché? Status, marchio e “qualità” giustificano l’assurdo. Il vero problema non sono i brand: andrebbero commissariati i clienti

di Jacopo Tona Jacopo Tona

L'unica cosa veramente made in Italy? La furbizia. L'arte dello sgraffignare senza dare troppo nell'occhio. Rubare alla luce del sole e, se possibile, rivendicare la legittimità del furto. Spiegare che in realtà non si è rubato nulla. Anzi, che dovete essere felici e contenti di essere stati derubati, e magari anche cornificati. “Il Made in Italy non esiste più”, scrive il Fatto Quotidiano in relazione alle ultime disastrose notizie relative alle inchieste sul mondo dell'alta moda. Ma il giornale di Marco Travaglio è fuori strada. La vera essenza del Made in Italy, quella espressa con la massima onestà intellettuale da Wanna Marchi, è viva più che mai: i cogli*ni vanno incul*ti. A maggior ragione se sono disposti a spendere un sacco di soldi per una maglietta venduta dai brand dell'eccellenza italiana è prodotta a un prezzo irrisorio in Cina, o in qualche altro paese dove i costi di produzione sono ridicoli. Valentino, Max Mara, Dior, Loro Piana, Alviero Martini e Giorgio Armani Operations Spa: questi i nomi coinvolti fin'ora nelle varie inchieste. Subappalti, borse prodotte nei famigerati laboratori cinesi clandestini, lavoratrici trattate come bestie, sfruttamento in generale e tutele sindacali, manco a dirlo, evanescenti. È il capitalismo, bellezza, e a dirla tutta non c'è nulla di nuovo. È così dai tempi della prima rivoluzione industriale. Il problema di fondo è un altro, e non ci volevano indagini né inchieste per capirlo.

Un laboratorio Alviero Martini
Un laboratorio Alviero Martini Ansa

Mentre i trapper nei testi non fanno altro che sponsorizzare i brand del lusso, mentre Lazza porta sua mamma sul palco per regalarle una borsetta, superando così ogni qualsivoglia limite del cringe che il Castello delle Cerimonie in confronto è un dialogo socratico, mentre gli outlet e i negozi di lusso creano degli ipermondi paralleli, a nessuno viene in mente di chiedersi una cosa, quando va a fare shopping: cento euro per una t-shirt, perché? E cento euro ancora sono pochi. Eh, ma si paga il marchio. Eh, ma la qualità. Eh, ma la sostenibilità, che il fast fashion è criminale. Eh, ma lo status symbol. Sono tutte queste stronzatelle a corroborare la vera e verace italianità dell'arte sodomitica del lusso, a fare in modo che il cliente sia cornuto e contento. Perché di questo si tratta. Se spendi una cifra sproporzionata per un prodotto tutto sommato ordinario, vuol dire che li hai spesi per far capire agli altri che li hai spesi, e a quel punto non ti importa nemmeno se quello che hai comprato ne valeva meno di un terzo, dei solro che hai speso. Sei come un tacchino che prima di essere cucinato si spenna da solo, e magari si tira pure il collo sull'orlo della pentola piena d'acqua bollente. Ma sei felice così. Quindi, che senso ha commissariare le aziende come accaduto ad Alviero Martini, per dirne una. Sono i clienti che andrebbero commissariati.

 

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