The King of fashion is dead, long live the king of fashion. Lo diciamo così, senza giri di parole, perché lui, di parole, ne usava poche ma precise. Oggi è uno di quei giorni in cui il lutto non riguarda solo chi veste la moda, ma chi veste il mondo. Perché Giorgio Armani, che ci ha lasciati a 91 anni, più che un nome altisonante, un marchio prestigioso o un colosso industriale, ancora più che un uomo, è stato un codice universale. Un'idea precisa di che cosa significhi avere stile, e attraverso lo stile anche potere. Era l’uomo che ha insegnato all’Italia a vestirsi meglio, e al mondo a guardare l’Italia con altri occhi. Il Re silenzioso della moda italiana se ne va lasciando dietro di sé una Milano orfana, un’industria che non ha mai osato contraddirlo, e un’estetica che ha cambiato per sempre il modo in cui pensiamo all’eleganza. Giorgio Armani era l’uomo che aveva capito prima di tutti che la moda si può sussurrare, e che un completo può essere una corazza, ma anche una carezza. Così, ha tolto le spalline all’armatura del potere e ci ha infilato dentro un corpo umano, vulnerabile e reale. Negli anni ’80 ha inventato il look del manager cool, ma anche quello dell’antieroe cinematografico. Ha vestito Richard Gere in “American Gigolò”, lo ha accolto nel suo studio, gli ha offerto un caffè e ha passato un’ora a studiargli il fisico, i movimenti, il modo in cui camminava e si sedeva.

Et voilà, senza nemmeno prendere le misure, il guardaroba perfetto per uno dei film cult più iconici della storia. In poche mosse, Armani ha fatto dell’ambiguità un codice estetico, ha sdoganato il grigio rendendolo erotico. Sì, erotico. Provateci voi a concludere qualcosa con un doppio petto gessato addosso, e se ci riuscite, beh, è ricordatevi che è merito di Re Giorgio. Armani era l’architetto di una moda necessaria, e oggi gli offriamo quella riverenza silenziosa che si ha per i monumenti e i padri fondatori. La sua storia sembra quasi un paradosso italiano: da Piacenza, dopo gli studi di Medicina, entra alla Rinascente negli anni ’70 e lì, a poco a poco, comincia per magia a comprendere la moda. Quella moda che, fino a quel momento, in Italia era ancora ancorata all’atelier, Armani la prende e la spoglia, togliendo, alleggerendo e semplificando. E infatti è proprio nella sottrazione che arriva la rivoluzione. Con lui, la giacca perde la rigidità militare e diventa fluida, un’entità che segue i movimenti del corpo invece di costringerli, mentre i pantaloni si ammorbidiscono in forma e sostanza. I colori, invece, si fanno neutri: non più il nero misterioso o il bianco teatrale, ma l’enigmatico e irresistibile “greige", un grigio-beige che diventa la quintessenza della sua poetica. Fin dagli esordi Armani intercetta l’urgenza di una nuova estetica meno ostentata, più consapevole, e soprattutto, più umana.

E così veste il manager, l’avvocato, il professionista, ma anche divi, politici, rockstar, principesse. Eppure, ha sempre dichiarato di pensare prima all’uomo e alla donna “normali”, quelli che volevano sentirsi semplicemente in ordine. Mai un eccesso o una caduta di stile fuori luogo, e quel savoir-faire, il Re della moda, lo ha protetto fino all’ultimo. E qui nasce “Re Giorgio”, non solo per l’eleganza dei suoi abiti, ma per quella, più rara, del suo spirito. Anche quando l’impero era già enorme, si racconta che entrasse nei negozi, controllasse le vetrine, spostasse le giacche, correggesse l’inclinazione dei manichini di pochi gradi. Si diceva di lui che dovesse approvare “anche il peso della carta intestata nei suoi uffici”. E poi, l’integrità: più volte è stato corteggiato da gruppi come LVMH e Kering, ma ha sempre rifiutato. Diceva di voler restare indipendente per “proteggere il suo stile”. Giorgio Armani non ha mai ceduto alla tentazione di vendere il marchio a un colosso straniero, e ha continuato a lavorare ogni giorno, con la solita maglia blu e lo stesso sguardo austero, fino alla fine. Perché per lui la moda era un mestiere, concreto, quotidiano, a volte noioso, ma sempre sacro.
