Prima Alviero Martini, ora Giorgio Armani: il caporalato pare essere la nuova tendenza della capitale della moda italiana, e sfila anche in passerella. Con grande indignazione di molti, ma nessuna sorpresa per altri, perché per gli insider del fashion business lo sfruttamento non è certo all’ultimo grido. In questi giorni l’indagine Armani è diventata un caso di stato. Com’è possibile che il nome altisonante di Re Giorgio, lo stilista che ha scalato la piramide della moda Made in Italy decennio dopo decennio, amato da grandi e piccini come il cioccolato Kinder, sia stato infangato da accuse così becere dopo ben 48 anni di carriera? Proprio lui, che un anno fa si schierava apertamente contro il fast fashion in virtù di quella preziosa lentezza che oggi si è persa in ogni ambito, e che nella moda forgia il vero concetto di lusso. Less but better. “Il declino del fattore moda per come lo conosciamo”, ha dichiarato a gennaio 2023 l’imprenditore e stilista piacentino, “è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion”. Aggiungendo: “Non si può produrre il bello a scapito del pianeta che ci ospita”. Parole che sono invecchiate male, di fronte alla triste realtà dei fatti scoperchiati dal Comando Tutela Lavoro: dal 2017, la Giorgio Armani Operations Spa opererebbe più o meno proprio come Shein? La società che si occupa della progettazione e della produzione di abbigliamento e accessori del colosso della moda italiano, per sette anni avrebbe affidato il suo lavoro ai cosiddetti opifici cinesi, capannoni-dormitorio dove il concetto di “fabbrica” abbraccia la manodopera clandestina, lo sfruttamento e il degrado. Con turni estenuanti di quattordici ore, condizioni igienico-sanitarie sotto il minimo etico e macchinari privi di protezioni, tutto per aumentare la velocità di produzione. A qualche chilometro dalle location più cool del panorama della moda italiana, nella pianura lombarda si cela la grottesca realtà del fast fashion, dietro l’insegna beffarda e intermittente del Made in Italy?
Non c’è lusso che tenga: una borsa Armani, proposta in boutique a cifre che sfiorano senza remore i duemila euro, viene assemblata da operai cinesi sottopagati per un costo di produzione di 90 euro, e rivenduta a sua volta dai fornitori alla società per 250 euro? Ne avete acquistata una? Vi sentite presi in giro? Su Shein, perlomeno, i prezzi non sono così alti e si mostrano alla luce del sole. Certo, dentro le borse griffate Armani nessuno ha mai trovato bigliettini con richieste d’aiuto da parte degli operai sottopagati, ma sarebbe stata solo una questione di tempo? Chi può dirlo. Nel frattempo, per chi si aggrappa con unghie e denti all’immacolato concetto di qualità italiana per giustificare la sua spesa esosa, basti pensare che quella borsa potrebbe essere intrisa del sudore di lavoratori sottopagati - di cui 12 senza contratto e 9 senza documenti - confezionata in condizioni degradanti e rifinita da macchinari pericolosi per la sicurezza personale. Andando nello specifico: macchine incollatrici a cui è stato rimosso l'inserto di plexiglass, necessario per “impedire che il lavoratore accidentalmente” rimanga incastrato con le mani o con gli indumenti; fustellatrici a bandiera prive di un “dispositivo di arresto in caso di emergenza; macchine tingi bordo senza un bicchiere di sicurezza; macchine da cucire senza un “carter” per proteggere le dita, e così via. Un meccanismo malsano, precario e pericoloso che si sarebbe protratto per sette anni, nelle province tra Milano e Bergamo, dimenticate dalla moda. Ma più il nome che spicca su capi e accessori è altisonante, meno interessano i tecnicismi.
Eppure, di questo corollario degli illeciti, Giorgio Armani non sapeva nulla. Dopotutto, se avesse saputo, forse avrebbe evitato di esternare la sua totale avversione per il fast fashion pochi mesi prima che la bomba scoppiasse, proprio in casa sua. La Giorgio Armani Operations Spa è in amministrazione giudiziaria, ma non è indagata per la legge sulla responsabilità amministrativa, e “collaborerà con la massima trasparenza con gli organi competenti per chiarire la propria posizione rispetto alla vicenda”. Ma il danno è stato fatto e gli italiani, feriti nell’orgoglio e nella fiducia, non portano più la mano al cuore al cospetto di Re Giorgio. Ironia della sorte: mentre il colosso della moda italiana comincia a tremare, alla veneranda età di 89 anni, Shein sta valutando la possibilità di quotarsi sulla piazza londinese, e se l’opzione andasse in porto, potrebbe trattarsi di una delle più grandi quotazioni societarie di Londra. E non solo: se riuscirà a dimostrare la correttezza della propria catena produttiva, per Shein nel 2024 si potrebbero aprire le porte delle quotazioni anche a Wall Street, a una valutazione che secondo Bloomberg potrebbe raggiungere i novanta miliardi di dollari. È questo il rovescio della medaglia del fast fashion: per alcuni tutto da guadagnare, per altri tanta credibilità da perdere.