Che cosa sta succedendo a Giorgio Armani e alle sue aziende? Perché il nome del grande stilista è su tutti i giornali? Il brand è stato travolto da una vicenda che tocca profondamente le corde del made in Italy. L’accusa mossa nei confronti dell’azienda è che le borse verrebbero realizzate in Cina, attraverso lo sfruttamento di lavoratori che opererebbero in dei capannoni-dormitorio. Delle possibili ripercussioni che questa vicenda potrebbe avere sul brand, abbiamo parlato con il giornalista ed esperto di comunicazione e crisis management Klaus Davi, che ci dice cosa dovrebbe fare Armani per uscirne, fa una stima dei possibili danni reputazionali ed economici e confronta il caso quello di Chiara Ferragni.
Klaus Davi, secondo l’accusa la Giorgio Armani Operations avrebbe avuto gravi carenze nel controllo, anche minimo, della filiera produttiva. Cosa pensa di ciò che è emerso? Se lo aspettava?
Non me l’aspettavo ma queste cose non sono nuove. C’era già stato il caso Benetton in Turchia, come altri casi rilevanti seppur diversi. Certo, in questo caso è Armani, quindi un marchio di identità internazionale, l’uomo che ha reso grande l’Italia nel mondo dagli anni Ottanta. Perciò ha sicuramente un forte impatto emotivo. Qui si sta parlando di accuse. Rispetto i pm e il loro lavoro, ma penso anche che in una grande impresa, con un impero sconfinato che ha reso grande l’Italia e la nostra reputazione, possa capitare di non avere tutto sotto controllo. Qualcosa può sfuggire.
Però si parla di prassi così collaudata... Non sembrerebbe un incidente di percorso.
Questo spetterà ai giudici stabilirlo, non all’accusa. Ma Armani c’è da cinquant’anni, faceva il vetrinista a Milano negli anni Settanta, siamo davanti a una carriera immensa. Può essere che una situazione sia sfuggita di mano, e lo dimostrano le vicende di Amadori, di Elisabetta Franchi o gli stessi Elkann che nei grandi imperi qualcosa possa sfuggire. Sono casi diversi ma che ci spiegano questo meccanismo. Rispetto l’accusa, ma non credo che il signor Armani sia uno sfruttatore di persone.
È emerso che la Giorgio Armani Operations esternalizzerebbe al 100% la produzione appoggiandosi a due ditte: la Manifatture Lombarde Srl e la Minoronzoni Srl. Società che avrebbero poi subappaltato a imprese cinesi.
Allora forse è lì il vulnus. Se così stanno le cose è stata data una certa fiducia e qualcosa è sfuggito dal controllo della capogruppo. Ripeto che non è la prima volta che accade una cosa del genere, ma la differenza qui è che Armani ha risposto benissimo. Lo ha fatto subito, ha avuto una tempestività eccellente, e lo ha fatto in prima persona. Lui ci ha messo la faccia, perciò sono certo che ci sarà un chiarimento. Ci sono stati anche altri episodi con altre aziende che hanno poi consentito di ristabilire le regole aziendali e per cui è poi stato tolto il “commissariamento”. Ma non possiamo negare che quello del “commissariamento” sia un atto forte, a maggior ragione per Armani, perché c’è un’altra entità che diventa una sorta di co-manager.
Secondo lei come andrà a finire?
Sono certo del fatto che chiarirà, ci ha messo la faccia. Premesso che la Procura fa il suo mestiere nell’interesse della collettività, nel momento in cui Armani in persona dice di voler chiarire tutto ed è subito intervenuto la cosa non può che esaurirsi in modo positivo. Però quello che è mancato è il controllo della filiera. Ricordiamo che siamo in fase di indagine preliminare, e se ci sono delle responsabilità non sono sue in prima persona, ma della catena di controllo. Perché tutto ciò è un danno per Armani, ed è il primo ad avere l’interesse che tutto ciò venga chiarito. Ha un mercato planetario con un patrimonio personale di undici miliardi di euro. Ma non è una questione di soldi in questo caso, è una questione di reputazione. Solitamente la situazione peggiora quando il soggetto interessato mette la testa sotto la sabbia, si nasconde, ma lui è uscito allo scoperto e si è messo a disposizione. Questo fa la differenza. In Italia poi non viene mai considerato il rischio che corre un’impresa.
Che cosa vuole dire?
È vero che ci sono stati degli errori, ma un’impresa rischia ogni giorno. Non stiamo parlando degli impiegati statali che sono stati pagati anche durante la pandemia, anche chi non andava a lavorare, ma di commercio, artigianato e moda, che hanno pagato in modo incredibile la pandemia. A chi interessa questo? A nessuno. Una volta chiariti i fatti Armani dovrà intervenire sulla filiera produttiva e assicurare il Made in Italy. Andranno anche accertate le responsabilità individuali, perché siamo nell’ambito del diritto e la responsabilità è personale. Io escludo che sia lui il diretto interessato dalla questione, lui non è mai venuto meno ai principi etici con i propri collaboratori, anche se bisogna ammettere che quello che è stato scritto nell’indagine preliminare è molto tosto. Quello che traspare e che c’è stata leggerezza, ma sono comunque accuse e non condanne. Credo che qualcuno all’interno della filiera abbia allentato i controlli e il primo a trarre le conclusioni di tutto ciò sarà proprio Giorgio Armani, perché altrimenti non sarebbe lui. Non è un imprenditore qualunque, lui rappresenta l’Italia e non avrebbe mai consentito una cosa del genere.
Essendo lei esperto di crisis management, che tipo di impatto può avere a livello reputazionale quanto sta accadendo? E che cosa deve fare un’azienda come quella di Armani nel momento della crisi?
La prima cosa è fare i controlli interni e individuare le responsabilità, ammettere gli errori e intervenire sulla filiera. Da questo punto di vista Armani si è mosso benissimo, perché è uscito subito in prima persona. Non dimentichiamoci che ci sono imprenditori che escono dopo diversi giorni o non escono proprio. Ha inoltre garantito la massima collaborazione all’autorità giudiziaria. Dal punto di vista dell’immagine, nell’immediato c’è un impatto reputazionale negativo non da poco, ma nel medio termine, quando il brand è così forte, la storia ci insegna che si riescono a trovare i giusti accorgimenti e correzioni e il brand viene ampiamente salvaguardato. Parlo di un dato storico perché di crisi ce ne sono state tantissime e di diversa natura: da Benetton, a Puma.
Il consiglio più importante che si sente di dare?
Se c’è un errore va ammesso subito e devi essere tu a dirlo. La Procura indica dove c’è stata la défaillance, ma poi sta a te controbattere, chiarire, ammettere eventuali errori e correggerli il prima possibile.
E a lungo termine dura il danno reputazionale? E c’è anche un danno economico?
Economico non credo, perché tutti vengono poi riabilitati e questo vale in generale. Siamo un paese che ha riabilitato la prima repubblica, vuoi che non riabilitino Giorgio Armani? Questo anche perché loro fanno molta attività sociale, benefica, contro l’Aids, hanno fatto stanziamenti sostanziali per il Covid, per cui non è un’azienda come le altre e sul lungo periodo non credo che il danno permanga.
C’è chi ha fatto immediatamente un accostamento con Chiara Ferragni.
È diverso, perché lei non vende nei negozi, ma vive (o viveva) dei like e del consenso tecnologico, per cui lei era in un cul-de-sac e lo è ancora. Per provare a uscirne dovrà reinventarsi, perché se dovesse fare una collaborazione il rischio ancora oggi è che il marchio con cui ha fatto la collaborazione venga inondato di critiche. Altro è Armani che deve vendere i prodotti nei negozi e ha un impatto molto, molto più attutito, ma deve giocarsela bene sulla comunicazione. Poi loro hanno una grande storia di charity, molto importante: è difficile che tutto ciò venga dimenticato.
Quando dice che la Ferragni deve reinventarsi, intende cambiare lavoro?
Sì, perché la formula del like legata al prodotto oramai è insidiosa. Lei deve trovare dei clienti disposti a essere trascinati nei turbillon, tenendo conto che forse ci sarà un rinvio a giudizio e forse un processo. Quindi è chiaro che dovrebbe inventarsi qualcosa di nuovo, magari più sulla sua persona e meno mediato dal web. Le aziende si spaventano per molto meno di Chiara Ferragni, figuriamoci in questo caso.