Il 31 luglio 2025, nel porto di Genova, è successo qualcosa di simbolico e potente: i portuali si sono rifiutati di scaricare container contenenti armi destinate a Israele, ritenendo di non voler essere complici del massacro in atto a Gaza. È un gesto che, a prescindere dalle opinioni politiche, merita rispetto: perché viene da lavoratori, non da politici; da cittadini, non da generali. È stato un atto di coscienza civile e umana. Di fronte a un conflitto che ha già fatto oltre 60.000 vittime civili palestinesi, la maggior parte donne e bambini, c’è chi ha deciso di non voltarsi dall’altra parte. L’idea che i porti europei diventino stazioni logistiche per la morte è una vergogna che qualcuno, finalmente, ha avuto il coraggio di denunciare. Ma la realtà è più complessa di quanto sembri… Il gesto dei portuali italiani (così come dei francesi a Marsiglia e dei greci al Pireo) ha una forza etica enorme, ma apre anche una questione geopolitica delicatissima: cosa succederebbe se davvero il mondo smettesse di finanziare Israele militarmente? Molti risponderebbero: “Finalmente! Così smette di bombardare i civili.” Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia. Israele, circondato da nemici storici e attori ostili (Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, milizie iraniane in Siria), è uno Stato che vive in uno stato di assedio permanente. Disarmarlo improvvisamente – senza un piano diplomatico, senza garanzie – significa esporlo a nuovi attacchi, terrorismo e instabilità. Hamas non è un esercito regolare: è un movimento radicale islamista che ha come obiettivo dichiarato la distruzione di Israele. È giusto fermare il massacro a Gaza. Ma è anche giusto domandarsi: che alternativa costruttiva stiamo proponendo a Israele? Non dimentichiamoci che Hamas (per quanto inferiore tecnologicamente) non è isolata: riceve fondi e armi dall’Iran, ha coperture politiche in Qatar e Turchia e gode del silenzio complice di chi, in nome dell’“antisionismo”, legittima ogni atrocità, anche quelle terroristiche. Se l’Occidente smette di sostenere Israele senza costruire un sistema di garanzie per entrambi i popoli, il rischio concreto è che la regione sprofondi in una nuova ondata di guerra totale, con migliaia di morti da entrambe le parti e la fine di ogni spiraglio di pace. Il gesto dei portuali è stato un richiamo alla coscienza, non un piano di pace. E oggi serve proprio questo: un piano, non solo una protesta.

Per me è chiaro. L’Europa dovrebbe bloccare ogni fornitura militare a chiunque violi il diritto internazionale. Israele compreso, se continua a colpire deliberatamente civili, ambulanze, scuole, ospedali, strutture Onu. Dovrebbe convocare una vera conferenza di pace, con garanzie reali per Israele (perché nessuno Stato può vivere nell’assedio perpetuo) ma anche con una rappresentanza palestinese libera da Hamas, e capace di proporre un’alternativa di convivenza. Ogni singolo aiuto militare, ogni euro, ogni arma dovrebbe essere vincolata al rispetto di condizioni umanitarie, diplomatiche, civili. Non si può più parlare di “difesa” mentre si polverizzano intere famiglie sotto le macerie. E sì, anche Hamas e chi la finanzia (Iran, Qatar, Turchia) dovrebbero essere messi davanti a una scelta: rinunciare alla distruzione di Israele o restare esclusi da ogni tavolo. Perché oggi Israele non sta perdendo solo l’appoggio delle Nazioni Unite. Sta perdendo qualcosa di più profondo: la pazienza dell’opinione pubblica mondiale. Persino alcuni suoi alleati storici iniziano a prendere le distanze. E se il mondo decidesse di abbandonarla del tutto, non trionferebbe la giustizia. Trionferebbe il caos. È tempo di uscire dalla logica del tifo pro Israele, pro Palestina, e iniziare a costruire soluzioni vere. Il gesto dei portuali di Genova è stato potente, umano, necessario. Ma non basta fermare un container. Ora serve il coraggio di sedersi a un tavolo, prima che a restare in piedi siano solo le macerie. Ma chi pagherà per tutto questo? Chi pagherà per le migliaia di vite cancellate? Chi si assumerà la responsabilità per ciò che è accaduto davanti agli occhi di tutti? La verità, durissima, è che nessuno pagherà, se non lo pretende la coscienza collettiva, se i popoli non si alzano in piedi e se le democrazie non smettono di essere complici. Questa non è stata una guerra. È stato un business e dovrebbe rispondere chi ha ordinato i bombardamenti, fabbricato e venduto le armi. Deve rispondere chi ha coperto tutto questo col silenzio, nella diplomazia o nei media, e un giorno dovrà spiegare perché. Israele si è nascosta dietro lo slogan della “guerra al terrorismo”. Ma i numeri non mentono: decine di migliaia di civili uccisi, quartieri interi distrutti, ospedali polverizzati.

Nel frattempo, l’industria militare ha fatto festa. Israele non solo compra armi: le produce, le testa a Gaza, e poi le vende. Elbit Systems: droni, missili, sistemi di sorveglianza. Rafael: creatrice dell’Iron Dome, co-finanziato dagli Usa. Iai: sistemi bellici aerei, terrestri e spaziali. Ogni nuova ondata di bombardamenti su Gaza è seguita da un balzo in Borsa. Le armi israeliane sono “battle-tested”. Testate su esseri umani. Gaza è il laboratorio. Il mondo è il mercato. Anche gli Stati Uniti ci hanno guadagnato, eccome. Ogni anno oltre 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele. Migliaia di missili, bombe, F-35, tank, software di sorveglianza. Il Pentagono compra, Israele riceve, queste aziende Lockheed Martin, Raytheon Technologies, Northrop Grumman, Boeing Defense incassano. E molti membri del Congresso americano detengono azioni in queste industrie. È un Conflitto di interessi legalizzato. L'Europa? Complice silenziosa. Anche qui si vende e si tace. Thales (Francia), Leonardo (Italia), Bae Systems (Uk), Rheinmetall (Germania): vendono componenti militari a Israele e ai suoi nemici. Le licenze all’export non vengono mai bloccate, nemmeno sotto le bombe. Le banche – Barclays, Bnp Paribas, Deutsche Bank – investono nelle industrie belliche. Silenziosamente. Ma con profitto. Dopo ogni massacro, arrivano le offerte. Le scuole, gli ospedali, le case rase al suolo diventano contratti miliardari per Ong, appaltatori, imprese estere. Il ciclo è perfetto: bombardo, guadagno, ricostruisco, guadagno di nuovo. Chi paga con la vita sono i civili. Chi incassa con il sangue sono gli industriali, i politici corrotti, i consulenti di guerra e i media compiacenti. Ma c’è ancora tempo per cambiare direzione. Serve il coraggio di dire basta come hanno dimostrato questi portuali di Genova.
