Cosa vuole, davvero, il governo dal risiko bancario? È la domanda che si chiedono in molti, specie a fronte dell’intransigenza dell'esecutivo rispetto ad alcuni, fondamentali partite in corso. Su tutte quella di Unicredit e dell’offerta pubblica di scambio (ops) lanciata su Banco Bpm, che si propone di creare un soggetto leader nel campo del risparmio italiano. Operazione che Palazzo Chigi ha subito ostacolato con il Golden Power – misura a salvaguardia dell’interesse nazionale che generalmente si applica verso acquisizioni che riguardano soggetti di paesi diversi – nonostante i pareri favorevoli sia della Banca centrale europea (Bce) che della Banca d’Italia. Ma il governo di Giorgia Meloni guarda anche alle mosse di Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, che a breve presenterà all’assemblea dei soci il piano per l’acquisizione di Banca Generali, operazione finanziata con il 13 per cento di partecipazione nel Leone che Piazzetta Cuccia conserva. Su Mediobanca pesa inoltre l’ops di Monte dei Paschi di Siena (Mps), della quale il governo è azionista di maggioranza. E sono proprio questi due ultimi attori, Mps e Generali, che potrebbero nascondere la risposta alla domanda iniziale.

Una risposta sulla quale ha provato a indagare Report, secondo cui dietro la scalata lanciata su Mediobanca, non ci sarebbe solo la volontà – peraltro già espressa nel 2022 – dell’ad Luigi lovaglio, bensì anche quella del governo di “mettere le mani su Assicurazioni Generali, la più importante cassaforte del risparmio degli italiani”. Il tema centrale è quello del controllo: quello che Palazzo Chigi vorrebbe assicurarsi sul leone triestino e quello a cui alcuni importanti soggetti vorrebbero sfuggire nel panorama della regolamentazione. Negli ultimi anni, il governo ha iniziato a cedere parte delle azioni possedute in Mps, salvata con soldi pubblici, per ottemperare agli impegni presi con l’antitrust europeo. Tuttavia, lo scorso novembre, “a gestire la partita è stata Banca Akros — controllata di Banco Bpm — che avrebbe facilitato l’ingresso di soggetti oggi protagonisti anche dell’assalto a Mediobanca: Caltagirone (3,6 per cento), Bpm (5 per cento), Anima (4 per cento) e Delfin (3,5 per cento). Una cordata che, insieme, avrebbe acquisito in modo anomalo (in questo genere di aste le azioni vengono collocate di prassi a decidine di investitori ha sottolineato Mottola) una quota significativa della banca senese e che ha tagliato fuori dall’operazione il resto del mercato”, si legge su Affari Italiani in merito all’inchiesta. A restare fuori dai giochi sarebbe stata, ad esempio, Unicredit, anch’essa desiderosa di avanzare un ordine. Tuttavia, come ha riportato anche il Financial Times, l’ad di Piazza Gae Aulenti Andrea Orcel non avrebbe mai avuto riposta da Akros.

Ma cosa c’è di strano e quali sono gli importanti soggetti citati in precedenza? In molti negli ultimi mesi hanno provato a fare luce sull’esistenza di una strategia che accomunerebbe gli interessi del governo con quelli degli imprenditori Francesco Gaetano Caltagirone e la holding Delfin, guidata da Francesco Milleri e cassaforte della famiglia Del Vecchio (EssilorLuxottica). Proprio in quanto soggetti industriali, entrambi non potrebbero acquisire il controllo di una banca vigilata dalla Bce – com’è Mediobanca – perché sprovvisti di licenza bancaria: “L’operazione gestita da Akros, dunque, altro non sarebbe stata che un modo per ottemperare fittiziamente agli obblighi di discesa del Mef nel capitale di Mediobanca sotto la quota del 20 per cento da un lato e di aggirare l’ostacolo Bce per Caltagirone e Delfin dall’altro. Entrare con una quota di azioni di controllo in Mps per poi lanciarla alla conquista di Mediobanca, permetterebbe infatti a Caltagirone e Delfin di acquisire il controllo di Piazzetta Cuccia che, viceversa, il divieto della Bce rende oggi di fatto impossibile”, racconta l’inchiesta.

Ma cosa muove tutte queste trasformazioni, che sembrano aver impresso alle dinamiche del settore bancario un ritmo incessante e a tratti schizofrenico, che alcuni – come Milano Finanza – hanno letto come un “gigantismo bancario” basato sulla necessità di aggregare solo ed esclusivamente per costituire concentrazioni di capitali sempre più grandi, tralasciando l’operatività tradizionale del settore bancario in nome di una sempre più selvaggia finanziarizzazione? La risposta, o almeno, parte di essa, è che queste operazioni contribuiscano a creare un profitto oltremisura, spesso ai danni dei risparmiatori. Una dinamica che non è certo nuova e che si è acuita soprattutto a partire dal 2023 ma senza che il governo riuscisse a porre un serio argine alla questione. Basti pensare alla conferenza stampa dell’agosto di quell’anno in cui la premier Giorgia Meloni annunciò l’intenzione di tassare gli extraprofitti. In quell’occasione Meloni parlò di “margine ingiusto” riferendosi alla differenza tra il tasso di interesse applicato dalle banche nell’erogazione dei prestiti e quello, inferiore, riconosciuto ai risparmiatori nel momento in cui depositano denaro. Nell’annuncio, Meloni affermò di voler prelevare il 40 per cento di quel margine di guadagno attraverso la tassazione. Una misura che, in base ai volumi di allora, avrebbe consentito alle casse dello Stato di guadagnare oltre 10 miliardi di euro. Quelle parole fecero scattare sulla difensiva Forza Italia, alleato di governo di proprietà della famiglia Berlusconi. A esprimersi contro la tassa ci fu proprio Marina, la primogenita del Cavaliere e proprietaria del 30 per cento di Banca Mediolanum, che grazie agli extraprofitti aveva triplicato gli utili. Dopo settimane di tira e molla il risultato fu un nulla di fatto.

Ma ancora più surreale fu l’esito del secondo, questa volta molto meno pubblicizzato, tentativo. Nel 2024, infatti, il Mef avviò una serie di colloqui con le principali banche italiane finalizzato al raggiungimento di un accordo sulla tassazione delle eccedenze. Questa volta non si parlò di extraprofitti ma di “sacrificio” – così lo descrisse Giorgetti – che dipinse gli istituti di credito quasi come patrioti al servizio del paese. Ma, anche in quell’occasione, si arrivò a qualcosa di completamente diverso che, anzi, ha più l’aria di essere una sconfitta per il governo. In pratica, l’accordo raggiunto da Mef prevedeva la “facoltà”, e non l’obbligo, per le banche, di pagare più tasse allo Stato per un periodo di circa due anni, al termine del quale si prevedevano altri due anni a tassazione ridotta. In pratica, un gioco a somma zero più simile a un prestito che a un prelievo fiscale. Ma non finisce qui. Perché l’altra scelta per le banche era quella di non pagare tasse su nessun extraprofitto, mantenendo quindi tutti gli utili nelle casse per rafforzare i rispettivi patrimoni. Indovinate quale fu la scelta? Ebbene sì, il gettito fiscale generato da quel “sacrificio” delle banche fu pari a zero. Che patrioti.