“Siamo rimasti colpiti anche di più dal trattamento mediatico che su alcuni giornali questa orribile notizia riceve. Repubblica, c'è un richiamino in prima e poi bisogna andare alle pagine 16 e 17 su la stampa, a meno dei miei errori sempre possibili, non c'è niente in prima e bisogna arrivare a pagina 22. Quindi cosa abbiamo imparato in questo venerdì di metà giugno? Che se c'è un inseguimento e muore l'inseguito, lo metti come titolo di prima e ci fai 10 giorni di talk show. Se c'è un inseguimento e viene assassinato, l'inseguitore in divisa, dove lo mettiamo? In cronaca pagina 22 a ciascuno le amare considerazioni del caso”.
Si chiude così l’occhio al caffè di venerdì 13 giugno, la rassegna stampa di Daniele Capezzone. Il riferimento è ovviamente all’omicidio di Carlo Legrottaglie, il carabiniere nel brindisino ucciso da due rapinatori che stavano fuggendo. E a questo tema che Capezzone dedica il suo editoriale su Libero.
“L’unica buona notizia della giornata è la sorte del due di rapinatori – poi divenuti assassini – che hanno colpito nel Brindisino: uno morto, l’altro catturato. Bene così, non sentiremo la mancanza – per motivi diversi – di nessuno dei due. Il resto è tragedia pura: la morte di un Carabiniere, con l’atroce beffa di perdere la vita proprio nell’ultimo giorno di servizio.”
Capezzone descrive con partecipazione la tragedia del brigadiere, “un povero e coraggioso” servitore dello Stato, colpito a morte proprio nell’ultimo giorno di servizio. “Tutti ieri ci siamo immedesimati”, osserva, dipingendo con umanità la possibile routine di quell’ultima mattina: “sveglia all’alba, magari un saluto particolarmente affettuoso ai familiari, un pensiero a come sarebbe stata la vita dal giorno dopo. E invece no: la chiamata, l’inseguimento, fino all’epilogo nel sangue”.

Ma più che commozione, dalle colonne di Libero emerge una netta rabbia: “Qui a Libero ci siamo sentiti tutti più arrabbiati che emozionati. Perché questo delitto non è casuale.” Capezzone denuncia il rischio quotidiano che affrontano uomini e donne in divisa, spesso dimenticati o addirittura ostacolati da certa opinione pubblica e da una parte del mondo politico e mediatico.
“Da tempo, per una ragione o per l’altra, non sempre hanno avvertito il sostegno di certa politica e di certi media”, afferma, ricordando i casi recenti di Ramy e Momo – giovani nordafricani morti durante inseguimenti – che avrebbero generato “un clima di sospetto” nei confronti delle forze dell’ordine.
Capezzone denuncia “una campagna – a volte esplicita, a volte strisciante – per attaccare le forze dell’ordine, per creare su di loro un clima di sospetto e delegittimazione.” Secondo l’editorialista, ogni episodio anche solo dubbio viene trasformato in processo mediatico a carabinieri e poliziotti, mentre chi fugge – anche se responsabile di gravi reati – viene spesso dipinto come vittima.
“Pensateci: ad ogni episodio anche soltanto dubbio, sono sempre state create ombre e accuse verso poliziotti e carabinieri”, denuncia, ricordando come le indagini – pur “atto dovuto” – si traducano immediatamente in spese legali, stop alle promozioni e assalti mediatici.
Capezzone se la prende con l’ipocrisia di chi oggi piange il carabiniere morto, ma in passato ha cavalcato campagne anti-polizia: “Molti fra coloro che ieri hanno versato lacrime di coccodrillo sulla sparatoria nel Brindisino sono gli stessi che nei talk-show e sui giornali si erano esibiti oscenamente contro gli uomini in divisa.”
E conclude con un appello a ristabilire un principio fondamentale: “In un paese civile dovrebbe esserci un pregiudizio a favore degli uomini e delle donne in divisa. Poi – per carità – anche loro possono sbagliare. Ma è incredibile che su di loro gravi un clima di sospetto e delegittimazione.”
