La laurea? Un “pezzo di carta” che non preclude il futuro dei giovani. Nella migliore delle ipotesi, un percorso di studi auspicabile ma non necessario per coronare i propri sogni. Nella peggiore, una vera e propria perdita di tempo per gli studenti, visto e considerando i sempre più numerosi guru diventati ricchi sfondati dall'oggi al domani, senza peraltro aver versato una goccia di sudore sopra i libri di testo. Per non parlare, poi, del mito dei geni della Silicon Valley, e dei geek abili a costruire imperi dal nulla, dalle loro camerette o dai loro garage polverosi. E così, tra la delusione per un mondo economico-lavorativo privo di sbocchi, situazioni personali incompatibili con una faticosa sessione pluriennale di studi e l'illusione di poter occupare le stanze del potere senza sprecare tempo prezioso, in Italia i fautori della “laurea-pezzo-di-carta” sono sempre più diffusi.
Dove la laurea “è solo un pezzo di carta”
Del resto, dalle nostre parti – e non solo in Italia - gli esempi che avvalorano questa credenza non mancano affatto. A cominciare dalle schiere di ministri ed ex ministri, alti funzionari e ingranaggi della burocrazia finiti a ricoprire i rispettivi ruoli senza essersi mai messi alcuna corona d'alloro sulla testa. Per non parlare di rispettabili professionisti finiti a dirigere aziende milionarie grazie a qualsiasi cosa tranne lo studio. Sia chiaro: le qualità e le abilità di una persona non sono tali solo ed esclusivamente se riconosciute da un titolo di studio. Lo dimostrano, per continuare con gli esempi, i numerosi profili di personaggi di spicco, del passato e del presente, che hanno lasciato il segno in vari ambiti professionali: da Bettino Craxi a Giuseppe di Vittorio, da Piero Angela ad Enzo Biagi, passando dall'analista geopolitico Dario Fabbri. Prima che la polemica sulla “laurea-non laurea” di quest'ultimo fagocitasse gran parte dell'opinione pubblica dei social, pochi si interessavano al fatto che qualcuno fosse laureato. Certo, ad eccezione di quei giornalisti desiderosi di sminuire le capacità del politico di turno. In ogni caso, numeri alla mano nell'Unione europea il 34,3% della popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni, ovvero quella in età lavorativa, ha ottenuto un titolo d'istruzione terziaria. Peccato che, mentre in Irlanda e Lussemburgo questa percentuale supera il 50%, e che in Francia e Spagna oscilla tra il 41 e 42%, in Italia si fermi al 20,3%. Detto altrimenti, la percentuale italiana è la seconda più bassa tra tutti gli Stati membri dell'Ue, davanti alla sola Romania, fanalino di coda con il 19,7%. Che le cause siano sociali, economiche, sistemiche o addirittura antropologiche, poco importa. Il fatto è compiuto.
Un problema sistemico
Senza mettere in discussione lo spessore di rinomati professionisti non laureati, vale la pena confrontare due sistemi tra loro agli antipodi: quello italiano, e di certi Paesi dell'area mediterranea, dove la laurea è spesso un plus ultra e poco altro, e quello asiatico, dove invece il titolo di studio e il percorso scolastico-universitario – e persino gli istituti frequentati sin dalla tenera età – sono propedeutici all'inserimento del singolo nella società. In Italia nessuno, o comunque una parte ristretta della popolazione, si sognerebbe mai di scegliere la migliore scuola elementare nella quale iscrivere i propri figli. La decisione ricade spesso su una scelta di comodo, e cioè sull'istituto più vicino a dove si abita. Un discorso simile può essere fatto anche per le università. Al netto di chi sceglie di studiare qualcosa di specifico e settoriale o di chi cerca l'eccellenza assoluta, e quindi per q uesto è costretto a muoversi, molte persone si iscrivono agli atenei più vicini a dove risiedono, presupponendo che la laurea non condizionerà più di tanto il loro futuro. “Nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula”, dichiarò del resto, nel 2017, l'allora ministro del Lavoro Giuliano Poletti. A conferma di come i curricula, sì, possano essere validi se arricchiti da lauree, specializzazioni e master, ma non sempre determinanti.
Dove la laurea vale la vita
In Italia, insomma, siamo alle prese con un sistema molto “aperto”, se possiamo usare un termine del genere, dove un titolo di studio non è la conditio sine qua non per avviare una carriera prosperosa in determinati settori. Anche in quelli dove tendenzialmente si richiederebbe un alto grado di specializzazione ed esperienza accademica. In molti Paesi asiatici – ed ecco il confronto al quale accennavamo poc'anzi – si respira invece un clima ben diverso. In Cina si parla spesso delle jiwa, ovvero delle terribili madri tigri interessate solo ed esclusivamente al successo e alla performance dei pargoli. Queste mamme sono paragonate alle tigri per la rigorosa disciplina che pretendono dai figli, i quali, fin da piccoli, subiscono una formazione scolastica pressante e martellante. Il sistema cinese, del resto, richiede che gli studenti sostengano esami fin da giovanissimi, per poi arrivare, all'età di 18 anni, a fare i conti con il temutissimo gaokao, l'esame di ammissione all'università. Non un esame come gli altri, visto che il Nationwide Unified Examination for Admissions to General Universities and Colleges sancisce, di fatto, la possibilità di accesso o meno degli studenti all'istruzione superiore. E stabilisce, anche, in quale università i singoli ragazzi proseguiranno i loro studi. Va da sé che un buon punteggio è fondamentale per accedere ai migliori atenei. Una road map del genere è presente anche in Corea del Sud, dove i giovani crescono ambendo a terminare i rispettivi percorsi di studi nei migliori istituti, in modo tale da ottenere i migliori lavori possibili. Qui è previsto il CSAT (College Scholastic Ability Test), o suneung, una sorta di mega verifica che si tiene a livello nazionale, a novembre, e che viene sostenuta da chi desidera iscriversi ad un’università. L'obiettivo degli studenti, come nel gaokao, è quello di ottenere abbastanza punti da poter poi entrare in una delle tre università più prestigiose del Paese. In Corea del Sud, le cosiddette SKY: la Seoul National Univeristy, la Korea University e la Yonsei University.
Ottima università uguale ottimo lavoro
Così come in Italia l'università è spesso vista come un fattore inutile nell'ottica della formazione dei ragazzi, in Cina e Corea del Sud lo studio accademico comprovato è l'unico trampolino di lancio che consente ai giovani di frequentare i piani più alti della società. “A essere onesta fino in fondo, molti genitori asiatici, anche se non lo dicono, trovano orribili e sconvolgenti parecchi aspetti dell’educazione occidentale”, ha dichiarato qualche anno fa al programma Today Amy Chua, madre tigre divenuta famosa pubblicando il libro Battle hymn of the tiger mother (uscito anche da noi con il titolo Il ruggito della madre tigre). Un libro dove, in sostanza, l'autrice ha spiegato come e perché le madri debbano impartire ai figli un'educazione scolastica ferrea, se vogliono condurre i pargoli al successo lavorativo. L'approccio asiatico può dunque essere sintetizzato in una semplice espressione: eccellente formazione scolastica, uguale accesso in un'università prestigiosa, cioè ottimo lavoro conseguito grazie al titolo ottenuto, quindi successo nel mondo del lavoro. In Cina questo modello ha spinto le autorità a porre un freno all'iniziativa delle madri tigri, arrivando ad approvare una legge per imporre la diminuzione di compiti e ripetizioni inflitti ai bambini. Impossibile o quasi, tuttavia, pensare di ricoprire cariche rilevanti in Asia senza avere lauree, titoli, master, dottorati. Sarà un retaggio degli esami imperiali confuciani oppure il jolly che ha consentito ai governi della regione di creare dal niente miracoli economici nazionali unici nel loro genere. Fatto sta che un'educazione del genere – al netto di episodi di nepotismo e corruzione - considera i titoli di studio indispensabili, sia per diventare dirigenti d'azienda che per ricoprire alti incarichi politici.