L’ipotesi dell’opposizione, per la prima volta unita contro il governo, è che la scelta di scarcerare Njeem Osama Almasri, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, tra cui torture, stupri, omicidi nelle carceri (o meglio, nei campi di concentramento) libiche dove vengono detenuti non solo oppositori, dissidenti, militanti dell’Isis, ma anche donne, bambini e migranti bloccati sulle coste del Paese, sia alla fine una decisione politica e non un errore procedurale. E lo pensiamo anche noi (ne parla qui il nostro direttore). In un Paese civile e liberale un governo dovrebbe cadere (ma non accadrà) se sceglie deliberatamente di violare gli accordi con la Corte internazionale per perseguire un’agenda politica, quella sull’immigrazione, accettando di chiudere gli occhi sul caso di un criminale ricercato in diversi Paesi (per altro alleati). La scusa del governo è stata: errore procedurale. Non basta. Come ha spiegato Ermes Antonucci del Foglio, Nordio avrebbe potuto richiedere un arresto regolare subito dopo la prima scarcerazione. La cosa non è stata fatta, anzi, Almasri è stato rispedito su un aereo di Stato a casa, dove lo aspettano, secondo l’Onu, 2.600 prigionieri (uomini, donne e bambini) da torturare, seviziare e magari uccidere. Lui sorride, nella foto all’aeroporto, noi un po’ meno (e anche l’Aja, che si aspettava collaborazione dal governo Meloni, che invece è stato zitto e poi ha provato a trovare qualche giustificazione).
L’opposizione, si diceva, crede che la matrice della scarcerazione abbia a che fare con scelte politiche, mentre alcune fonti contattate da La Stampa parlano di un tentativo, da parte del governo, di scongiurare un secondo caso Cecilia Sala, stavolta con un rastrellamento di circa duecento italiani se il nostro Paese non avesse liberato Almasri. Può darsi, come può darsi che ci sia di mezzo davvero il tentativo di tenere in piedi gli accordi che da quasi dieci anni garantiscono all’Italia delle basi in Libia per rallentare e dissuadere le partenze verso i nostri confini. Si parte con il Memorandum d’intesa firmato dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni nel 2017 (e curato dal ministro dell’Interno Marco Minniti), in cui si garantiva non solo l’impegno dell’Italia a finanziare le azioni di sostegno nelle regioni colpite dall’immigrazione, ma anche quello a “fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l'immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del Ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell'Interno” (art. 1); e, contestualmente, a finanziare i cosiddetti centri di accoglienza (art. 2). Accanto al Memorandum ci furono altri accordi, mai confermati direttamente dai governi in carica ma oggetto di inchieste, che prevedevano il sostegno a delle milizie per la lotta all’immigrazione clandestina. Entrambe le strade scelte dal governo Gentiloni e rinnovante ogni tre anni dai successivi governi (con pochissime e trascurabili modifiche) vennero criticate da Amnesty International e da altre Organizzazioni non governative nel campo dei diritti umani.
In realtà questi meccanismi di difesa, che ora continuiamo a sostenere, hanno un effetto totalmente opposto ai propositi del governo Meloni, che aveva promesso al caccia agli scafisti in tutto il globo terracqueo. È un fatto non di queste ore e facilmente prevedibile. Come racconta Gabriele Del Grande nel suo libro Il secolo mobile: storia dell’immigrazione illegale in Europa (Mondadori, 2023), una delle conseguenze dei provvedimenti del 2017, che hanno radici negli anni precedenti e, soprattutto, nelle tragedie in mare del 2015 e del 2016, è stata proprio lo sciacallaggio da parte di scafisti e trafficanti di uomini; un rischio, quello di foraggiare indirettamente proprio questi gruppi criminali, che era stato denunciato ufficialmente anche dagli esperti dell’agenzia europea Frontex a febbraio dello stesso anno. Lontani dal voler cambiare strategia, Giorgia Meloni ha invece intensificato i rapporti con la Libia e a gennaio del 2023 ha fornito, a seguito di un nuovo accorto, cinque motovedetta alla Guardia costiera libica, decisione nuovamente criticata dalle principali organizzazioni a tutela dei diritti umani, Amnesty compresa.
Resta un’altra domanda: davvero gli interessi del governo riguardano solo il fenomeno migratorio? Fin dal giorno dell’insediamento Giorgia Meloni aveva parlato di un piano Mattei per l’Africa, una nuova strategia di investimenti e sostegni che avrebbe sostanzialmente rafforzato il potere dell’Italia nelle coste meridionali del Mediterraneo. Non a caso, l’accordo sulla gestione dei migranti a inizio 2023 venne concluso a Tripoli il 28 gennaio 2023 parallelamente a un secondo patto. Il ruolo principale, in quel caso, lo ha avuto Eni, una delle due aziende firmatarie insieme alla National oil corporation. L’obiettivo: i giacimenti di gas e petrolio nella costa occidentale della Libia, uno dei Paesi con la maggior riserva di gas del continente africano. Si trattava di un investimento di 8 miliardi di dollari che avrebbe fornito all’Italia non solo la promessa di futuri guadagni dovuti soprattutto all’esportazione del gas in Europa, ma anche un ruolo geopolitico sul Mediterraneo. La scarcerazione di Almasri pare, in modo evidente, collegata a un disegno politico ed economico più grande che, tuttavia, non può calpestare il diritto internazionale, né, tantomeno, la dignità umana. Questo, senza che ci sia bisogno di fare dietrologia.