Per avvicinarsi alla verità su Emanuela Orlandi, forse bisogna uscire da Roma. O addirittura dall’Italia. Era il 4 ottobre 2020, domenica di pandemia e autostrade deserte, quando un giornalista italiano, Gianluigi Nuzzi, varcava il confine per un appuntamento segreto ad Avignone, cuore spirituale della Provenza. Lo aveva convocato un sacerdote di Lourdes, allarmato da “qualcosa” che accadeva lì. Niente ancora di verificabile, ma quanto basta per dire: vieni subito. Al centro della storia c’è Sophie L., vent’anni, pochissima istruzione, origini umilissime, famiglia contadina. Da mesi, raccontano i religiosi, sarebbe vittima di episodi di bilocazione – sì, quel fenomeno mistico di presunta presenza in due luoghi diversi allo stesso tempo. Durante queste trance, Sophie parlerebbe con ragazzine scomparse negli anni ’80 da Roma. Una su tutte: Emanuela Orlandi. A sentir lei, la Orlandi sarebbe stata prigioniera, vittima di un gruppo organizzato, e il rischio che la stessa sorte tocchi anche a lei potrebbe essere reale e imminente.


La diocesi ha preso la questione maledettamente sul serio. Sophie vive in un appartamento messo a disposizione dai religiosi, senza accesso a internet o mezzi d'informazione. Pregando quasi tutto il giorno, riferisce con dovizia di dettagli episodi legati al caso Orlandi, e mostra ai sacerdoti segni e lividi sugli arti – “stigmate” comparse durante le bilocazioni. Sono state fotografate, inviate a un medico, persino valutate da un esorcista. Il verdetto? Sophie non è indemoniata. Ma è terrorizzata. Che sia tutto vero o no, poco cambia. Il punto è che uomini di Chiesa – e non di secondo piano – l’ascoltano, prendono nota, fanno verifiche. E qualcosa, dicono, torna. Allora una domanda resta sospesa nell’aria di quel convento francese: è una via alternativa alla verità, mascherata da misticismo? O l’ennesimo depistaggio per tenere lontana la giustizia? Una sola certezza: quarant’anni dopo, il caso Orlandi non ha ancora finito di parlare.

