«Era solo ingenua». È questo che pensava zio Mario Meneguzzi di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana scomparsa nel nulla il 22 giugno 1983. Lo stesso zio che parlò con i rapitori al posto del padre Ercole, troppo distrutto per reggere anche solo la cornetta. Lo stesso zio, poi, accusato ingiustamente di averla fatta sparire. Perché Emanuela, nata e cresciuta nei giardini ovattati del Vaticano, non aveva gli strumenti per riconoscere il male. La trappola era già scattata, e lei nemmeno l’aveva sentita chiudersi. Nel nuovo speciale di “Linea di confine”, Antonino Monteleone ha seguito le ultime orme lasciate da Emanuela insieme al fratello Pietro. E la verità che emerge, 42 anni dopo, fa ancora più rumore del silenzio che l’ha seguita. Pietro non riesce a tagliare il cordone con quei luoghi che lo hanno cresciuto e, forse, tradito. «Il Vaticano per me era casa», racconta, ma oggi non riesce più a vederlo con gli stessi occhi. È lì che, secondo lui, si gioca la partita più sporca: «La prima chiamata dei rapitori al Vaticano arrivò la mattina del 22 giugno. Noi non sapevamo ancora niente. Cercavano il Segretario di Stato. Ma questa informazione ci è stata nascosta per decenni». Quando il Papa parlò pubblicamente per la prima volta, il 3 luglio, la famiglia si aggrappò alla sua voce come a un’àncora. Ma oggi Pietro è convinto che Giovanni Paolo II sapesse tutto, e abbia scelto il silenzio per proteggere l’immagine della Santa Sede.


Due giorni dopo arrivò la famigerata telefonata dei rapitori: chiedevano lo scambio con Alì Agca, l’attentatore del Papa. Ma anche quella pista, oggi, sembra puzzare di depistaggio. Per coprire cosa? Una transazione di denaro, forse. O un favore da restituire a qualcuno con le mani troppo sporche anche per confessarsi. Quel giorno Emanuela esce dalla scuola di musica, a due passi dalla Basilica di Sant’Apollinare. Lì vicino, un uomo in BMW le offre un lavoretto facile: distribuire volantini a una sfilata, in cambio di una buona paga. Lei chiama a casa dal telefono dell’istituto. Risponde la sorella Federica. Accetta. Uscirà, lo incontrerà, forse. Poi sparirà. Pietro ha una sua teoria. Crede che Emanuela, dopo averlo aspettato invano alla fermata, sia tornata davanti al Senato, sperando di rivederlo. Lui, forse, le ha detto che il materiale era stato lasciato dentro la Basilica. Un luogo che lei conosceva bene, dove si sentiva al sicuro. E se invece fosse stata una trappola? Se l’avessero attirata dentro per farla sparire dal retro, narcotizzata, in silenzio? Quella stessa Basilica, anni dopo, ha ospitato anche il corpo del boss Enrico “Renatino” De Pedis, sepolto lì con un permesso speciale del Vaticano, concesso da monsignor Ugo Poletti a don Pietro Vergari. Un altro nome che torna sempre, come un ritornello stonato, in questa storia: Vergari, direttore della scuola di Emanuela, amico del boss, e l’unico uomo di Chiesa ad aver ricevuto un avviso di garanzia per concorso in sequestro. Il procuratore Capaldo, che indagò a fondo sul caso, ha detto che forse Emanuela non è mai uscita viva da Sant’Apollinare. E se davvero tutto fosse partito da lì, da un pomeriggio qualsiasi dentro una Basilica, sarebbe la beffa finale: un luogo sacro trasformato in prigione. O peggio.

