Marco Accetti è una comparsa che non vuole uscire di scena. Un uomo che trent’anni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, 15 anni, cittadina vaticana, svanita nel nulla il 22 giugno 1983, si presenta alle autorità e dice: “Ero uno dei rapitori”. Nessuna prova. Era lui l’uomo che telefonava alla famiglia Orlandi? Chiamate fatte durante giorni in cui Roma si stringeva attorno a un mistero che ancora oggi non molla la presa. La Commissione d’inchiesta parlamentare sulla scomparsa di Emanuela e di Mirella Gregori (sparita a 15 anni poche settimane prima) ha rispolverato gli identikit del tempo. Due volti: Marco Accetti e Marco Sarnataro. A guardarli c’era Alfonso Montesanti, all’epoca marito di Patrizia De Lellis, figlia di Franco De Lellis e Giuliana De Ioannon, dipendenti nella scuola di musica frequentata da Emanuela. A uno dei due identikit, Montesanti ha accennato: «Potrei averlo visto». Poi ha aggiunto, con quel tono che ha più il sapore della rassegnazione che della rivelazione: «Un ambiente dove si potevano fare queste cose era il Vaticano. Ma si diceva così, erano chiacchiere. Io non l’ho mai frequentato».


Chiacchiere, appunto. Come quelle che da sempre avvolgono la figura di Accetti. Fotografo romano, racconta di aver partecipato al sequestro su mandato di un gruppo interno al Vaticano, mai ben definito, che avrebbe usato Emanuela come leva per influenzare le gerarchie ecclesiastiche. Una lotta di potere, un’operazione politica camuffata da rapimento. Una spy story ambientata tra cupole e confessionali. Niente a che vedere, dice lui, con la pista turca (quella dell’attentato a Giovanni Paolo II) o con la Banda della Magliana. È tutta una faccenda interna, da curie e sacrestie. Dice anche che il caso Orlandi e quello di Mirella Gregori sono legati. Ma per gli inquirenti le sue parole restano un castello di carte: suggestivo, ma fragile. Le analisi fonometriche sulla voce del “telefonista” non hanno dato conferme. Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, lo ha sempre detto chiaramente: “Accetti è un mitomane”. Uno che cerca attenzione sfruttando il dolore degli altri. E forse non ha tutti i torti. Ma resta il fatto che le versioni di Accetti sono troppo precise per ignorarle del tutto e troppo traballanti per crederci davvero. Il personaggio è ambiguo, ma è proprio questo che lo rende centrale in una vicenda dove nulla è chiaro. È il simbolo di tutto quello che il caso Orlandi è diventato: un labirinto di silenzi, piste deviate, figure borderline che si muovono tra verità e invenzione. E se non fosse tutto vero, ma nemmeno tutto falso? Fino a quando non arriveranno prove concrete, Marco Accetti resta lì, sospeso in un limbo tra testimone chiave e disturbatore di fondo. Il suo racconto, come tanti altri in questa storia, non porta luce. Aggiunge solo un'altra ombra.

