Non sono di Emanuela Orlandi. Quelle ossa trovate lo scorso 21 luglio nel vano ascensore del padiglione Monaldi, all’ospedale San Camillo di Roma, non appartengono alla cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno del 1983. A confermarlo è il primo esito degli esami genetici condotti dalla Sapienza: resti umani, sì, ma di un uomo adulto. Nessuna quindicenne, nessuna traccia di lei. Eppure il collegamento con Emanuela è stato immediato. Bastata una soffiata, un sospetto, un ricordo maledetto e i riflettori si sono accesi ancora una volta. Perché quel padiglione cadente, ex reparto di patologia clinica neuromuscolare chiuso a fine anni ’80 e diventato rifugio per senzatetto, è più vicino a una certa verità di quanto si possa pensare. O almeno così si sperava. C’entra Sabrina Minardi, l’ex amante di Enrico De Pedis. Quindici anni fa raccontò ai magistrati che, dopo il rapimento, Emanuela sarebbe stata trasferita in una casa di via Antonio Pignatelli 13, a Monteverde. Un sotterraneo immenso, secondo lei, collegava quel rifugio direttamente all’ospedale San Camillo. Dichiarazioni visionarie, forse. Ma la Digos, nel 2008, quel sotterraneo lo trovò davvero. Solo che Emanuela, lì sotto, non c’era. Nessuna traccia concreta di lei, come sempre. Eppure ogni volta che affiora un nuovo indizio, ogni volta che si scava, qualcuno torna a sperare, o a temere, che sia proprio lei. Anche stavolta, però, la verità ha un altro nome. O, peggio, nessun nome. I resti rinvenuti durante i lavori di ristrutturazione risalgono, secondo gli esperti, a un periodo compreso tra due e otto anni fa. Troppo recenti per essere quelli di Emanuela. E appartenenti a un uomo, non a una ragazza.

Un altro giallo dentro un giallo. Cosa ci facevano delle ossa umane, nemmeno troppo antiche, sotto un ascensore di un ospedale pubblico? Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ce lo ha detto chiaro: “Ovviamente sono contento che quelle ossa non siano di Emanuela. Però non è normale che ci siano ossa vecchie di pochi anni sotto il vano di un ascensore di un ospedale. Spero approfondiscano, perché ci sono tanti scomparsi. Almeno che identifichino di chi sono. C’è di certo una famiglia che aspetta notizie.” È sempre lì, Pietro. A tirare il filo, a mettere ordine tra le macerie. Non per trovare un colpevole qualsiasi, ma per dare pace almeno a una verità. La sua, quella di Emanuela, non arriva mai. Ma intanto ce ne potrebbe essere un’altra da ricostruire. Un’altra sparizione, un’altra famiglia in attesa. Perché un cadavere murato in un ospedale pubblico è sempre una domanda a cui qualcuno deve rispondere. E se non è la storia di Emanuela a smuovere le coscienze stavolta, che almeno lo faccia quella, ancora senza volto, dell’uomo che quelle ossa ce le ha lasciate. Che lo faccia per chi aspetta.

