Premessa necessaria visti i tempi che corrono: in guerra non tifiamo per nessuno. Siamo già impegnati a soffrire durante l'anno con le nostre squadre di calcio, tra sconfitte inaspettate e vittorie sfumate all'ultimo minuto, e dunque non abbiamo alcuna intenzione di immedesimarci anche nelle cause sposate da Stati, governi e leader mondiali. Quando però scoppia una guerra molti giornalisti si riscoprono tifosi, o peggio ancora, ultras. Succede infatti che chi dovrebbe informare il pubblico inizia a stravolgere la realtà, talvolta in maniera spudorata, con l'unico fine di sostenere una delle due parti belligeranti e la conseguenza di stravolgere completamente la narrazione del conflitto. In altre parole, loro ci raccontano una cosa (che tra l'altro spesso avviene a migliaia di chilometri da dove la stanno scrivendo) ma quella cosa, nella migliore delle ipotesi, non è mai successa. Certo, un modus operandi del genere non è affatto una novità ma nell'era dei social network, della disinformazione e dell'ignoranza dilagante ha assunto tutto un altro significato. Ai tempi dell'Iraq, con la famosa fialetta sventolata nel 2003 dall'allora Segretario di Stato statunitense, Colin Powell, davanti a un incredulo Consiglio di Sicurezza dell'Onu, come prova che Saddam Hussein possedesse armi chimiche e biologiche - preludio alla guerra Usa contro Baghdad - eravamo ancora a un livello istituzionale. Con il bombardamento di Libia e Siria, tra il 2011 e il 2014, Twitter e Facebook stavano già creando i primi prototipi di reporter-tifosi, personaggi più attenti a portare acqua al proprio mulino ideologico che non a sporcarsi le mani per capire cause e rischi delle tensioni geopolitiche. La guerra in Ucraina, nel 2022, avrebbe definitivamente sdoganato il “rutto libero”: notizie impossibili anche soltanto da immaginare (ucraini che abbattevano aerei russi con le fionde, Mosca che aveva finito le armi dopo poche settimane dall'inizio dell'offensiva, Putin in fin di vita e così via) hanno iniziato a sostituire raffinate analisi geopolitiche e cronache sul campo. È finita qui? Neanche per idea. Al contrario, la tendenza si è rafforzata con lo scoppio del conflitto tra Israele e Iran.

Dicevamo: il conflitto tra Israele e Iran. Non bastava non averci capito un caz*o in Ucraina e aver ignorato crimini e porcherie avvenute nella Striscia di Gaza (adesso ne parlano tutti, dalla Bbc al New York Times, ma in colpevole ritardo): adesso dobbiamo iniziare a sorbirci questa inutile nenia dell' “Iran che ha già perso”, del “regime degli ayatollah incapace di reagire”, dell'Aeronautica di Tel Aviv che “ha conquistato i cieli iraniani”, degli iraniani che “vogliono la libertà e sono stanchi di Kamenei”, di “rivolte in corso” e “rischio golpe”. È curioso il fatto di voler criticare la propaganda russa, cinese, iraniana e quella di chiunque altro Paese vogliate aggiungere alla lista, per poi però peggiorare la situazione informativa immettendo nell'etere altra propaganda altrettanto inutile. Nel caso specifico, l'Iran non “ha già perso”. Teheran potrebbe presto capitolare, è vero, ma intanto tiene botta a Israele, da solo, senza aiuti di Russia e Cina, e risponde colpo su colpo a ogni attacco ricevuto dagli israeliani. Come? Sparando salve di missili verso lo Stato ebraico con buona pace dell'Iron Dome. Ci avevano infatti raccontato che lo scudo israeliano fosse impenetrabile o quasi. E invece? Più missili del previsto lo hanno inesorabilmente bucato colpendo palazzi e strutture nel cuore di Haifa e Tel Aviv. Ci stanno raccontando anche che gli iraniani, intesi come i cittadini, si stiano ribellando contro il loro stesso governo. L'insofferenza locale appare tuttavia molto meno vistosa di quanto non la si voglia descrivere e forse non rovescerà affatto gli ayatollah. Anche perché la maggior parte del Paese sembrerebbe effettivamente (e banalmente) sostenere ancora il proprio Paese contro un nemico giurato.

L'Iran non è Hamas o Hezbollah. L'Iran è una nazione di 89 milioni di abitanti armata fino ai denti che non ha alcuna intenzione di capitolare di fronte a Netnyahu. E allora per quale motivo Tel Aviv ha attaccato l'Iran? La spiegazione ufficiale: il programma nucleare degli ayatollah, il rischio che il Paese possa dotarsi dell'arma atomica e che possa lanciarla contro Israele. Parallelamente: il sostegno iraniano agli Houthi e varie milizie anti israeliane in Medio Oriente. La spiegazione ufficiosa: togliere di mezzo gli ayatollah consentirebbe a Israele di eliminare il suo nemico numero uno e agli Usa di mettere ko un fidato scudiero di Russia e Cina. La spiegazione più estrema: Netanyahu vuole creare un “Grande Israele”. Lasciando perdere quale possa essere la risposta corretta, pensiamo al recente passato: destabilizzare un Paese ha mai portato a qualcosa di buono? Le ultime volte finì malissimo: la Libia in perenne guerra civile e causa prima degli sbarchi di migranti in Europa; l'Isis che per poco non si prendeva mezzo Medio Oriente; la Siria nelle mani di un ex jihadista (che adesso piace all'Occidente); l'Afghanistan nelle mani dei talebani. Chissà ci riserverà l'Iran post ayatollah. Ammesso e non concesso che Israele riesca a vincere la guerra senza provocare un conflitto mondiale.

