Cecilia Sala è tornata a parlare. Per la prima volta dopo la sua liberazione dall’Iran, la giornalista ha deciso di raccontare da Fabio Fazio a “Che tempo che fa” cosa ha vissuto durante i ventuno giorni trascorsi nel carcere di Evin, a Teheran. Lo ha fatto con la voce che tremava, gli occhi bassi in alcuni momenti, mentre cercava di dare un senso a una prigionia che non ha solo spezzato il tempo, ma anche lasciato cicatrici profonde. “Io ero lì con un permesso da giornalista, avevo richiesto le interviste un mese prima. Hanno bussato alla mia camera mentre lavoravo e da qual momento non ho più potuto fare nulla, chiamare l'ambasciata, un avvocato iraniano, nulla”, ha detto Cecilia, ricordando l’incubo del 19 dicembre. Poi l’irruzione, gli uomini che la portano via incappucciata, la testa spinta verso il sedile dell’auto. Sono stati i rumori familiari della città a farle intuire dove fosse diretta: il carcere di Evin, noto per essere una delle prigioni più dure del Paese. Da quel momento è iniziato un isolamento che la giornalista descrive come “insopportabile”. Il primo impatto con la detenzione è stato durissimo. Le hanno tolto gli occhiali, considerati pericolosi, e con essi anche le lenti a contatto. Per giorni non ha avuto nulla: niente libri, niente parole, niente che potesse darle un appiglio o un conforto. “Ho passato il tempo a contare le dita delle mani e a leggere le etichette delle buste che mi davano. Pensavo a cose belle, alle persone che amo. È stata la mia unica ancora”. Nei primi quindici giorni, gli interrogatori sono stati una costante. Ogni giorno, bendata, Cecilia veniva portata in una stanza con la faccia rivolta al muro. “Mi interrogava sempre la stessa persona in perfetto inglese e capivo che conosceva molto bene l'Italia. Il giorno prima della mia liberazione sono stata interrogata per dieci ore di seguito. Non credevo fosse vera la notizia della liberazione, io pensavo mi portassero in un altro carcere, che mi portassero via i Pasdaran. Non mi hanno mai toccato, anche perché i maschi non possono neanche sfiorare le femmine, mi portavano con un bastone in sala interrogatori. Ero incappucciata anche per andare alla toilette. C'erano fari al neon sempre accesi e quando non dormi per giorni perdi anche fiducia nella tua testa”. Le domande erano pressanti e monotone. L’obiettivo era chiaro: piegarla psicologicamente. Durante uno di questi lunghi interrogatori, è crollata: “Il giorno prima della liberazione mi hanno interrogato per dieci ore consecutive. Ero crollata, non ce la facevo più, e mi hanno dato una pasticca per calmarmi. Ero spaventata, temevo per la mia mente”.
La paura di perdere il controllo era costante, soprattutto perché le regole del carcere sembravano mirate proprio a portarti al limite. Ma il momento più difficile è stato il silenzio dell’isolamento, interrotto solo dai rumori strazianti provenienti dalle altre celle. “Non potevo dormire per via dei neon accesi. E poi c’erano i rumori strazianti: pianti, urla, persone che cercavano di farsi del male. Una ragazza nella cella accanto sbatteva la testa contro la porta con tutta la forza che aveva.” In uno di quei momenti, durante una telefonata con il compagno Daniele, Cecilia gli ha detto: “Ho paura per la mia testa.” Era una confessione che racchiudeva tutto: la fragilità, la resistenza, il rischio di crollare. “Ho pensato molto e preso in considerazione l'ipotesi che fosse una detenzione illegittima e che lo sapessero anche loro, ma ho anche provato a pensare a cosa potesse avergli dato fastidio. Ma erano interviste annunciate fin da quando ho chiesto il visto. C'era qualcosa che non tornava nel mio arresto”. La svolta è arrivata con una notizia. “Ho capito di essere un ostaggio quando mi hanno informato della morte di Jimmy Carter, il presidente americano della crisi degli ostaggi. È stata l’unica notizia che mi hanno dato dall’esterno”. Cecilia non capiva perché, ma poi tutto è diventato nitido e lampante: il nome dell’ex presidente le ha fatto realizzare che era parte di un gioco più grande, un ostaggio in un delicato intreccio geopolitico. Quella consapevolezza ha reso l’attesa ancora più angosciante. Negli ultimi giorni, qualcosa è cambiato. Le hanno portato un libro scelto dai suoi carcerieri (Sala aveva chiesto il Corano in inglese): Kafka on the Shore di Haruki Murakami. Poi è arrivata una compagna di cella. “Quando è successo, ho pensato che forse ce l’avrei fatta a restare più a lungo, se fosse stato necessario”. Ma la liberazione è arrivata prima del previsto, grazie a una rapida operazione diplomatica che ha coinvolto Italia, Stati Uniti e Iran. Cecilia è stata portata in un aeroporto militare, convinta che fosse solo un trasferimento. Poi ha visto un uomo italiano e ha capito: “È stato il sorriso più bello della mia vita”. E sul presunto coinvolgimento di Musk: “Nessuno della mia famiglia e neanche Daniele Raineri (il suo compagno, anch’egli giornalista, ndr) hanno mai parlato con Elon Musk. Innanzitutto, diciamo che la mia famiglia prova a contattare chiunque in quei momenti e l'unica priorità dal loro punto di vista era liberarmi. Nessuno di loro ha mai parlato con lui ma Daniele Raineri, il mio compagno, contatta il referente di Elon Musk in Italia, Andrea Stroppa, e gli chiede se può far arrivare questa notizia dalla famiglia perché non la scopra dai giornali”.
Fazio, tra un’interruzione e una domanda tendenzialmente improbabile, la ascolta. “I rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti e l'Iran sono interrotti dal '79, dalla rivoluzione islamica quando i rivoluzionari islamici iraniani rapiscono tutti quelli che trovano dentro l'Ambasciata degli Stati Uniti, che da allora è chiusa, però esce sul New York Times due mesi prima del mio rapimento che Elon Musk aveva incontrato l'Ambasciatore iraniano presso le Nazioni Unite che è a New York. Una notizia enorme perché non si parlano direttamente gli americani e gli iraniani. Quindi ovviamente nel momento in cui lui sa molto più di me, perché ha accesso alle notizie e io no da dentro l'isolamento, però si capisce che è un caso che riguarda sia l'Iran, sia l'Italia, sia gli Stati Uniti, Elon Musk diventa una persona fondamentale. L'unica risposta che ha avuto Daniele da Andrea Stroppa è stata 'è stato informato'”. Cecilia temeva l’insediamento imminente di Donald Trump. “Se avesse deciso di alzare i toni contro l’Iran, la mia situazione sarebbe potuta diventare molto più complicata. Era un conto alla rovescia spaventoso.” Ricordando i giorni passati in cella, non riesce a non ammettere di essere stata fortunata. “È stata l'operazione più rapida per liberare un ostaggio in Iran dagli anni '80. Io seguo l'Iran e ho studiato i casi precedenti, quindi sapevo che 21 giorni non erano molti”. E l’Iran? “Non tornerò finché ci sarà la Repubblica Islamica”. Le sue parole non sono piene di rabbia, ma di determinazione e forza. La liberazione di Sala è una vittoria, ma il suo racconto è un promemoria doloroso di ciò che accade ancora oggi a chi non ha voce. “Ho dei picchi di euforia bellissimi e dei momenti di ansia che imparerò a gestire. Sono stata fortunata a stare dentro solo 21 giorni, e di conseguenza il recupero per me è stato più rapido di molte altre persone nella mia condizione”. Per lei il futuro è una nuova prova: riprendere in mano la sua vita, senza mai dimenticare chi, come lei, ha vissuto giorni che spezzano l’anima.