Cecilia Sala è tornata in Italia dopo essere stata prigioniera in Iran per 21 giorni in condizioni di detenzioni terribili. È stata liberata nella notte tra il 7 e l’8 gennaio dalla prigione di Evin, dove si trovava detenuta dal 19 dicembre. Il primo gennaio la madre di Cecilia, dopo aver parlato con la figlia, ha raccontato una realtà differente da quella che ci era stata fino a quel momento prefigurata: il pacco mandatole dai suoi cari non lo aveva ricevuto, era costretta a dormire per terra con solo due coperte e senza nemmeno un cuscino. L’ambiente è illuminato costantemente e non aveva nemmeno la possibilità di leggere, scrivere o utilizzare i suoi occhiali. Ma che cosa può scattare nel cervello di una persona che ha vissuto una condizione simile? Lo abbiamo chiesto al neurologo Rosario Sorrentino, che ha affrontato sia il tema del disturbo post traumatico da stress che degli attacchi di panico.
Cecilia Sala è appena uscita dal carcere. Chi subisce quanto accaduto a lei è necessariamente candidato a sviluppare il disturbo post traumatico da stress?
Non tutte le persone che vivono una brutta esperienza, un’esperienza fortemente traumatica durante la quale vedono il rischio reale della propria incolumità, sopravvivenza svilupperanno il disturbo post traumatico da stress. Infatti, ci sono diversi modi di reagire di fronte ad eventi così eclatanti. Molte persone in virtù di un loro assetto, equilibrio neurobiologico, riusciranno ad archiviare l’accaduto e a superarlo col tempo senza conseguenze. Per altre, purtroppo, nel breve, medio e lungo periodo potranno sviluppare i sintomi correlati a quanto è accaduto.
Di quali sintomi stiamo parlando?
Semplificando, potranno manifestarsi un’ansia generalizzata, attacchi di panico, insonnia, cambiamenti repentini dell’umore e il fenomeno del flashback che sarà per loro sempre in agguato. Quest’ultimo è particolarmente invalidante perché è l’improvvisa irruzione nel flusso di pensiero, di coscienza, di immagini, sensazioni e dettagli raccapriccianti su quanto si è subito. Il che evidentemente destabilizza la persona e le conferisce la percezione di un profondo senso di vulnerabilità e fragilità.
Cosa prova il nostro cervello quando si sta 21 giorni in prigione in isolamento?
Essere sequestrati, vessati, minacciati rappresenta una deprivazione improvvisa della propria normalità, perché si viene catapultati in uno scenario raccapricciante. Il trauma che il cervello assorbe e registra come una spugna scompagina in un batter d’occhio la vita e l’esistenza di una persona e la catapulta in una realtà surreale. Quello stesso cervello che poi come una ghiandola impietosa restituisce tutto sotto forma di sensazioni, sintomi e comportamenti imprevedibili. Ma, e forse riguarda proprio Cecilia Sala, quando poi si ritorna alla libertà quello a cui la persona assiste è uno spettacolo neurosensoriale bellissimo. Perché vuol dire riassaporare il gusto della libertà, la luce i colori i rumori e gli odori conosciuti. Sono i nostri sensi nella loro espressione migliore che ci garantiscono connettendoci con la realtà a noi familiare e desiderata a lungo in quegli interminabili giorni di prigionia.
Come si cura il disturbo post traumatico da stress?
Con una psicoterapia di tipo cognitivo comportamentale in combinazione con una farmacoterapia.
Che idea si è fatto di Cecilia Sala e del suo comportamento?
Sin dall’inizio il comportamento di Cecilia è stato improntato da una forte determinazione e consapevolezza, da quanto ho potuto apprendere, di cercare il più possibile di far trascorrere il tempo ingannando i pensieri negativi che tutti i giorni riaffioravano nella sua mente. Considerando anche i continui interrogatori a cui lei era sottoposta che potevano aggiungere ulteriore stress e sconforto. Ha certamente dimostrato una straordinaria resilienza e capacità di adattamento che stupiscono per la maturità e la forte tenacia che ha dimostrato, riuscendo addirittura a trasmetterlo anche a chi ha assistito a questa tristissima vicenda. Uscirà certamente da questa esperienza maturando ancora di più il valore della vita e delle cose che contano, ma soprattutto una grande passione per il suo lavoro che l’ha aiutata anche in una storia che avrebbe segnato chiunque.
C’è chi ha avuto da ridire sul fatto che abbia registrato quasi subito una puntata del suo podcast prodotto da Chora Media. È una reazione comprensibile?
La interpreto come una legittima modalità per ricominciare subito il proprio lavoro e per buttarsi alle spalle il prima possibile quanto sconcertante ha vissuto. È come se avesse voluto dire a sé stessa “si ricomincia come prima e più di prima”.
Quanto sono frequenti in carcere fenomeni come gli attacchi di panico?
Non c’è dubbio che la condizione claustrofobica legata alla restrizione in soggetti predisposti possa slatentizzare crisi di panico ripetute. Molto spesso il primo sintomo che subisce chi vive la condizione di carcerazione è proprio il panico perché il carcere rappresenta tutto ciò che una persona con determinate sofferenze teme, perché rappresenta la condizione più estrema per la negazione della propria liberà impossibilità di poter uscire.