“Qualcosa non andava”, aveva scritto Alberto Trentini in un messaggio WhatsApp poco prima che la sua vita si trasformasse in un limbo. E adesso, a quasi tre mesi dal fermo da parte del controspionaggio venezuelano, la domanda è una sola: come riportarlo a casa? Alberto non è un dilettante in missione, uno di quelli che partono con uno zaino pieno di buone intenzioni e poca esperienza. A 45 anni, è un veterano della cooperazione internazionale, con due decenni di carriera che l’hanno portato dall’Africa ai Balcani, dal Sudamerica al Libano. Laurea a Ca’ Foscari, specializzazioni a Liverpool e Leeds, e un curriculum che gronda impegno, ma anche successi sul campo. Eppure, il Venezuela lo ha inghiottito in un gioco di potere che ha lasciato la sua famiglia e i suoi colleghi in un silenzio assordante. Dopo giorni di tensione e ostilità negli aeroporti, il 15 novembre Alberto avrebbe comunicato la sua intenzione di dimettersi. Appena 24 ore dopo, il fermo. Dicono che sia stato trasferito a Caracas, ma da allora il buio: niente notizie certe sulle sue condizioni, nessuna comunicazione ufficiale. E, come se non bastasse, c’è il dramma aggiuntivo di un uomo che soffre di diverse patologie e che probabilmente non ha accesso ai farmaci di cui ha bisogno.
Nel frattempo, la Commissione interamericana per i diritti umani ha emesso una misura precauzionale per il Venezuela, chiedendo chiarezza sul caso entro 15 giorni. Una richiesta che somiglia più a una preghiera, considerando la rigidità e l’opacità del regime di Nicolás Maduro. Il caso Trentini non può non farci pensare a quello di Cecilia Sala. Per fortuna, Sala ha avuto un epilogo diverso, anche grazie a pressioni politiche, diplomatiche e mediatiche che hanno fatto la differenza. Ma oggi, per Alberto, manca un elemento chiave: una pedina di scambio come Abedini o una figura che possa mobilitare un’azione incisiva, come accaduto con Trump e Musk in altri contesti. Questa è la domanda che pesa come un macigno. Senza un “asso nella manica” da giocare nelle trattative, come può un paese come l’Italia, spesso prigioniero della sua stessa timidezza diplomatica, riportare a casa un cooperante fermato in un contesto geopolitico così complesso? La sua famiglia lo attende al Lido di Venezia, ma le risposte sembrano bloccate. E allora viene da chiedersi: in assenza di mezzi straordinari, chi si prenderà il rischio di rompere il silenzio e fare davvero la differenza?