Per Alfredo Cospito (e Nicola Gai, condannato anche lui per la gambizzazione nel 2012 di Roberto Adinolfi, dirigente di Ansaldo Nucleare) l’anarchia è di certo l’unica via, come recita una vecchia rima. Il detenuto al 41 bis, sull’orlo del suicidio dopo 103 giorni di sciopero della fame, nel 2013 aveva letto in tribunale il suo “manifesto” esistenziale e politico: “In una splendida mattina di maggio ho agito ed in quelle poche ore ho goduto a pieno della vita. Per una volta mi sono lasciato alle spalle paura e autogiustificazioni e ho sfidato l’ignoto. Sono anarchico autorganizzatore perché contrario a ogni forma di autorità e costrizione organizzativa. Sono nichilista perché vivo la mia anarchia oggi e non nell’attesa di una rivoluzione che, se pure verrà, creerà solo una nuova autorità. Non aspiro ad alcuna futura ‘paradisiaca’ alchimia socialista, né ripongo fiducia in nessuna classe sociale”. Gai gli faceva eco, facendo riferimento alla Federazione Anarchica Informale, una delle sigle degli anarchici della penisola: “Se pensate di arrivare, grazie a noi, ad altri anarchici che abbiano deciso di sperimentare la possibilità caotica, spontanea e informale della Fai vi sbagliate di grosso e non potrete che fare l’ennesimo buco nell’acqua; né io né Alfredo conosciamo alcuno che abbia fatto questa scelta. State dando la caccia a un fantasma”. Queste righe sono illuminanti per farsi un’idea di cosa siano l’anarchia e l’anarchismo, al netto dell’ovvia riprovazione per atti terroristici: non solo una teoria politica, ma una pratica di vita. Da sempre rivoluzionaria, tendenzialmente illegale e spesso, anche se non sempre, violenta.
Una spiegazione dell’anarchia non può fermarsi al significato etimologico, per altro chiaro (“senza-principio”, ovvero assenza di un’autorità imposta), ma va collegata alle esperienze consapevolmente anarchiche succedutesi negli ultimi tre secoli. In altre parole, l’anarchia, cioè il rifiuto di un governo esterno all’individuo, è il fine; l’anarchismo è la sua storia, così come ha avuto sviluppo dalla Rivoluzione Francese in poi, quando il termine “anarchici” fu usato per la prima volta per indicare la frangia più radicalmente anti-autoritaria dei rivoluzionari, gli Arrabbiati. Come ha scritto il massimo esperto italiano in materia, Giampietro Berti, “si può dire che l’anarchismo è figlio dell’Illuminismo nella sua versione estremistica”. Nato quindi nella temperie del Settecento di Rousseau, Voltaire e Kant che indicavano all’individuo pensante la via delll’emancipazione dai dogmi religiosi e politici, il pensiero anarchico si radica dapprima in Francia, nell’Ottocento, grazie a Pierre-Joseph Proudhon, a cui si deve la prima definizione, per così dire ufficiale: “l’anarchia”, scrisse il grande rivale di Karl Marx, “è ordine senza potere”.
Sin da allora l’anarchico concepisce sé stesso come il nemico giurato di qualunque forza coercitiva che opprima la libera volontà individuale. Non aspira, come ancora si crede, all’anomia, alla mancanza di regole, perché sa che le regole sono necessarie, ma vuol darsele da solo; né tanto meno tifa caos per il piacere del disordine. Queste sono caricature letterarie. La bandiera nera dell'anarchia, vessillo ereditato dai corsari, simboleggia il sogno di un’autonomia integrale del singolo auto-responsabile, che non riconosce sopra di sé “né Dio né padroni”. Non fa politica e non agisce a tutti i livelli, quotidiano in primis, per conquistare il potere, ma per abbatterlo e redistribuirlo in associazioni volontarie di persone che si autogestiscono dal basso, federandosi e solidarizzando secondo il mutuo appoggio. Perciò, nel credere all’uguaglianza di ciascun essere umano, l’anarchico di ogni tempo è internazionalista, anti-razzista, anti-sessista (e ultimamente, almeno in parte, anti-specista, avverso cioè alla supremazia della specie umana sulle altre specie viventi). Non può che essere antifascista in quanto anti-totalitario, anzi anti-statale. Come non è democratico, a rigore, perché la democrazia si fonda sul principio di maggioranza, subdolo grimaldello per comprimere l’espressione delle minoranze. E non può essere né liberale né comunista poiché, per lui, libertà e uguaglianza non possono avere la precedenza l’una sull’altra, né in un senso né in altro. È per il superamento del matrimonio (libero amore), degli istituti repressivi (come il carcere e la polizia) e di convenzioni anacronistiche e liberticide (come i confini tra Stati). In sintesi, l’anarchico è un integralista dell’autodeterminazione, qui e ora. Per questo non riconosce capi e predilige l’azione diretta sulla teoria intellettuale.
E nn a caso un po’ tutti i pensatori del ricchissimo filone anarchico sono stati anche uomini impegnati nel loro tempo, politici e sovente veri e propri rivoluzionari, non raramente clandestini o in galera. Dall’inglese William Godwin (seminale la sua opera “Giustizia politica”, 1793) che definiva il metodo democratico un’“impostura”, al già citato Proudhon, alle cui idee ((“Che cos’è la proprietà?”, 1840) si ispirò nel 1870 la Comune di Parigi, archetipo folgorante di tutte le insurrezioni e di tutte le autogestioni. Fino al russo Michail Bakunin, feroce avversario di Marx, forse l’anarchico più anarchico di tutti i tempi, autore non solo di testi fondamentali come “Dio e lo Stato”, 1882, ma incarnazione vivente dell’ideale di rivolta, che fomentava in giro per l’Europa con instancabile, mostruosa vitalità, per arrivare all’altro russo eccellente, Pëtr Alekseevič Kropotkin (“La morale anarchica”, 1890), teorico dell’anarchia come “amore”, innata empatia naturale. L’anarchismo rappresentò fino agli inizi del Novecento, con un ultimo bagliore nella Guerra di Spagna (1936-39, teatro dell'unico esperimento di anarchia applicata su vasta scala in Europa), l’alternativa al socialismo marxista. Mentre Marx considerava Proudhon, Bakunin e compagni dei piccolo-borghesi individualisti e li accomunava nel disprezzo a Max Stirner, il filosofo del nichilismo più estremo e anti-umano (era favorevole, fra le varie, all’incesto), dal canto loro i seguaci dell’anarchia aborrivano i comunisti e, di conseguenza, i bolscevichi vincitori in Russia in quanto erano null'altro che una “una classe di intellettuali presuntuosi”, insopportabili in quella loro idolatria del Lavoro e della Scienza, che intendevano semplicemente sostituire al dominio borghese il proprio. Emma Goldman, una delle prime anarco-femministe e libertaria convinta ("Se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione!"), scrisse, non del tutto a torto: “Lenin si è seduto sul trono dei Romanov”.
Attraversando i decenni irrorando di libertarismo - ovvero di spinta a liberare energie latenti nella società - le meditazioni di tanti ingegni che in senso stretto non rientrano nell’album di famiglia (si pensi a Henry David Thoureau e alla sua “disobbedienza civile”, o a Lev Tolstoj e al suo cristianesimo anarchicheggiante, o a una Simone Weil e alle sue “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, o ancora a un Albert Camus e al suo “L’uomo in rivolta”), la matrice anarchica non ha mai smesso di fare proseliti, benché sempre confinati in nicchie. Ma potendo rivendicare nomi di assoluto prestigio come, per citarne qualcuno, il linguista e attivista americano Noam Chomsky (che si differenzia di netto da tutta una sotto-scuola tipicamente anglosassone che corrisponde all’anarco-capitalismo, in sostanza un individualismo che accetta di buon grado la proprietà privata, il mercato e le sue disuguaglianze) o il filosofo francese Michel Onfray (che per l’esattezza si qualifica post-anarchico, essendo in realtà un allievo di un Nietzsche da sinistra).
L’Italia nell’Ottocento era terra fertile per il primordiale sovversivismo di marca anarchica, essendo un Paese di recente unificazione, rurale e privo di grandi organizzazioni nazionali. I primi socialisti italiani, Andrea Costa e Carlo Cafiero, erano di fatto anarchici (e non per niente il giovane Benito Mussolini, già di suo caratterialmente predisposto, fu influenzato da quell’aria ribellistica, specie nell’infuocata Romagna del primo Novecento). Ridotti ben presto, tuttavia, a una condizione minoritaria, cominciarono un cammino di presenza costante, sia pur ai margini, avvalendosi di personalità di notevole caratura. Come Errico Malatesta, la cui rivista “Umanità Nova” resiste tuttora, come è tuttora valido il suo programma del 1919 per la Federazione Anarchica Italiana (cosa diversa da quella Informale), fitto di abolizioni in serie (della proprietà privata, del governo) e di guerre aperte (alle religioni, alle frontiere). O come Camillo Berneri, mente acuta e uomo d’azione, volontario in Spagna, che invitava già nei suoi anni a rigettare ogni schematismo ideologico per aderire alla realtà in incessante divenire.
Sparsi in mille rivoli e micro-cellule, fra slanci di generosità umana e cupe ingenuità, diviso in fautori della violenza e della non-violenza, con individualità irriducibili alle catalogazioni (come non ricordare un Luciano Bianciardi, scrittore di successo nell’anno 1962 con la “La vita agra”, che esortava a “occupare la televisione e le banche”, e non il parlamento?), oscillante fra movimenti frastagliati, terrorismo armato, azioni dimostrative (travasate oggi nell’ambientalismo in stile “Ultima Generazione”), insurrezionalismo (attraverso i blitz contro le Grandi Opere o le vetrine del potere, gli “assedi” dei Black Bloc ai vecchi G8) e l’accettazione delle istituzioni liberal-democratiche (qualcuno ha trovato dimora fra i Radicali, soprattutto in passato), il fiume dell’anarchia è carsicamente riemergente là dove, magari anche solo un pugno d’uomini, finanche solo due, come Cospito e Gai, promuovano la cosiddetta “propaganda del fatto” (violento). Da Gaetano Bresci regicida nel 1900, passando per gli attentati e le provocazioni di più o meno grosso calibro che di tanto in tanto costellano le cronache, gli anarchici duri e puri rimangono fedeli al “Catechismo del rivoluzionario”, sorta di testo sacro (e anonimo) risalente all’Ottocento, in cui il cospiratore in lotta con il potere costituito è descritto come “un uomo perduto in partenza”, la cui passione dominante, divorante e totalizzante è “la rivoluzione”, intesa come “scienza della distruzione”, immediata e molecolare, delle ingiustizie, soprusi e angherie di classe. In quelle pagine si trova il ritratto dell'idealtipo nichilista che non vuole e non cerca sconti, romanticamente e settariamente proteso al vivere un'esistenza priva di pietà non solo verso il nemico sociale, ma anche verso sé stesso. Un idealismo fanatico a cui non interessa il consenso e che può rovesciarsi nel suo opposto, nel machiavellismo che sacrifica tutto alla Causa. Un’etica che emana il demoniaco fascino della coerenza senza etica, senza limite, portata all’autodistruzione. Fino alla morte per consunzione. Come potrebbe dimostrare, se non la pianta con la protesta pseudo-gandhiana, Alfredo Cospito.